«Ci sono certe sconfitte che insegnano più delle vittorie, diceva un grande presidente. Certo, sarebbe meglio imparare da una vittoria. Ma questa è una sconfitta, indiscutibile: e dunque bisogna saper imparare la lezione che contiene. Anzi, politicamente essenziale è saper imparare insieme da una sconfitta così». E' questa la giornata: un giorno di sconfitta. E una sconfitta così. Ossia, storica.
E' questo il giorno che vive e cerca di elaborare Fausto Bertinotti, cui tocca di sigillare appunto nel segno della sconfitta elettorale una decisione presa da tempo (da tempi "insospettabili", ossia in premessa della campagna elettorale), quella di «lasciare ogni ruolo di direzione» dopo aver interpretato per ultima la funzione di candidato premier per la Sinistra l'Arcobaleno. E' una giornata così, in un senso diverso dalla sconfitta stessa: perché il Bertinotti che l'assume e ribadisce le sue decisioni - «io finisco qui» ma non certo nel senso della cessazione della vita politica, «una passione durevole» che continuerà nella militanza - quando scende nella strana location scelta dell'Arcobaleno per il suo "punto comunicazione" ossia l'Hard Rock Café di Via Veneto, proprio in faccia all'ambasciata Usa, riceve un'accoglienza ancora più strana. Di affetto, di sostegno, di empatia da parte delle e dei militanti che hanno come lui passato le ore appesi al filo della sfida dell'esclusione dalla rappresentanza, per vederlo alla fine spezzarsi. Applausi, grida di «grazie presidente», di «bravo Fausto»: strano, precisamente straniante se si avesse la percezione di questa sconfitta come una semplice fine. Un saldo finale senza possibilità di futuro. E invece c'è un senso in quell'abbraccio tra chi ci ha creduto sino all'ultimo, sapendo benissimo delle difficoltà e dei rischi, e chi la sfida l'ha legata al suo stesso nome, avendo per primo additato la difficoltà e il rischio proprio come fondamento d'una necessità di "provarci". Proprio questo, in verità, è l'assillo principale del Bertinotti del giorno della sconfitta: indicare che questo esito, semplicemente, «drammatizza la necessità che avevamo raccolto». La rende, propriamente, storica a partire dalla stessa dimensione storica del colpo subito. «Un naufragio», ci dice riflettendo in una pausa dal confronto con lo stillicidio delle proiezioni e dei risultati parziali: un naufragio dentro «un diluvio». Ecco: l'assillo immediato è un imperativo di metodo per stabilire una condizione essenziale all'elaborazione della nuova realtà. Cioè la «responsabilità» di «riconoscere la sconfitta». Riconoscerne tutti i termini. Che non possono essere ridotti a quel che pure si era denunciato come «rischio», ora resosi concreto. Non è «causa» sufficiente della sconfitta, quindi, «la controriforma istituzionale che s'è anticipata nella campagna elettorale e nelle scelte complementari del Pdl e del Pd di Veltroni, l'anticipazione del presidenzialismo». Né «l'americanizzazione» come realtà attesa da quel processo d'anticipazione. Né, soggettivamente, l'insieme delle «scelte del Partito democratico». Ragione Bertinotti: «questi elementi ci sono tutti, sono reali e hanno agito. Ma tutti sono, per noi, solo delle concause. La sconfitta, che pure è segnata da questi, resta la nostra». Ossia: «L'alluvione c'è, ma perché ad esso non ha resistito l'argine, tanto più che si presentava come proiettato nella costruzione d'una nuova realtà?». Già, il "cammino" evocato per l'immediato indomani del voto. Che fine fa, ora, l'appello a costituire il passo ulteriore d'una "nuova sinistra"? La risposta di Bertinotti è, intanto, la convocazione d'una riflessione ineludibile: ancora, quella sulla sconfitta. «La sinistra non può pensare di riprendere il cammino senza rimuovere l'ostacolo». Quello costituito da questa esclusione, così storica. Subito, però, appare un'altra faccia della necessità: «Dicendo questo - è il corollario - diciamo che nemmeno si può rimuovere l'ostacolo senza riprendere il cammino». Senza volere, cioè, proseguire - nelle forme possibili e costituibili ora - il "viaggio" evocato nella stessa campagna elettorale. Quello verso la «ricostruzione, anzi di più la costruzione» d'una sinistra che «faccia i conti con tutto ciò che occorre mettere in discussione: forme d'organizzazione, linguaggi, culture politiche». Tutto ciò, aggiunge adesso Bertinotti, che evidentemente «ha a che fare con il piombo nella ali che si è rivelato nella sconfitta». Dunque è qui, la «drammatizzazione»: che insiste su un compito doppio. Prima di tutto, «avviare una riflessione di fondo su un intero ciclo storico della sinistra italiana come pure, però, sul tempo recente» - quello dell'esperienza della scommessa di governo e della sua implosione, tanto pagata nelle urne: perché "nessuno", si ripete Bertinotti, «aveva previsto una dimensione tale del possibile insuccesso». Insomma, «non abbiamo capito, quindi non capivamo più». La "nostra gente" e insieme la società italiana, è il sottinteso. Poi c'è l'altro corno della necessità e della scelta cui finalizzare la riflessione, anzi "alla cui luce" svolgerla: «realizzare il viaggio». Una «necessità etica oltre che politica», a questo punto, vista proprio la dimensione storica dell'esclusione. Una scelta, naturalmente: da misurare sulla restante, più larga, latitudine di quel che con queste elezioni è accaduto nella politica italiana. «Aveva ragione Giorgio Agamben» dice Bertinotti alludendo al discorso del filosofo sull'egemonia del «paradigma della governa mentalità» come coazione della politica: in termini concreti, «si è convinta la gente che si vota solo per il governo». Una prima volta che fa di questo voto «il primo post-repubblicano». In forza, certo, delle scelte in quella direzione fatte dal Pd. Ma qui c'è la "follia" soggettiva dell'evento-elezioni: «Veltroni ha puntato tutto sul voto utile e sulla sfida presidenzialista, riuscendo alla fine a prosciugare la sinistra ma senza sfondare minimamente a destra e nemmeno al centro». Questo dicono le cifre. E dicono d'uno «smottamento complessivo», testimoniato dal successo specifico «delle forche del Nord e di quelle del Sud», leggasi Lega e dipietrismo. Dunque, è confutata anche la strategia veltroniana, che pure tanto ha contribuito alla "svolta" storica del carattere politico di queste elezioni, che «mettono fuori la sinistra» e insieme pongono l'orizzonte della politica fuori dalla «fondazione costituzionale», da un quadro di democrazia parlamentare e da una ricchezza d'espressione della società italiana nella rappresentanza: fondamentalmente fuori da qualsiasi perdurare di speranze sulla capacità degli istituti democratici di misurarsi con istanze di cambiamento, persino di miglioramento (delle condizioni di vita). Ma quel fallimento avventuristico, per così dire, delle scelte del "loft" nulla toglie alla profondità del problema della sinistra, ora. Un problema che si è fatto materialmente esistenziale, almeno a riguardo del rapporto tra sinistra e politica. Un problema che solo uno "spirito costituente" può affrontare restituendone la necessità: fattasi appunto «molto più drammatica», dunque urgente, da ieri. «Io finisco qui», dice Bertinotti: ma intende qui come questo messaggio di scelta necessaria. Le cui forme, il cui grado di determinazione, la cui conduzione «da oggi sono affidate, davvero, ad un ricambio altrettanto necessario». Poi, si vedrà «chi ci sarà». L'ultima parola di Bertinotti è ovvia: «Io spero che ci siano tutte e tutti, che nessuno si sottragga». Perché la latitudine della sconfitta «riguarda il "noi" della sinistra politica che c'è e che siamo», ma soprattutto «riguarda l'esistenza stessa d'una sinistra italiana». Ed è al cospetto di questo problema, adesso spalancato, che sta la responsabilità di quel "noi": di non riguardarsi più per sé stesso, insomma. E di compiere in fondo la riflessione sulla sconfitta, cioè su di sé e sul proprio limite. Fin qui, Bertinotti: il resto, se ci sarà, sta a quel "è noi", pur che vada oltre sé stesso. Verso tutte e tutti quelli che si sentono riguardati da quella che, da ieri in Italia, è la «questione-sinistra».
E' questo il giorno che vive e cerca di elaborare Fausto Bertinotti, cui tocca di sigillare appunto nel segno della sconfitta elettorale una decisione presa da tempo (da tempi "insospettabili", ossia in premessa della campagna elettorale), quella di «lasciare ogni ruolo di direzione» dopo aver interpretato per ultima la funzione di candidato premier per la Sinistra l'Arcobaleno. E' una giornata così, in un senso diverso dalla sconfitta stessa: perché il Bertinotti che l'assume e ribadisce le sue decisioni - «io finisco qui» ma non certo nel senso della cessazione della vita politica, «una passione durevole» che continuerà nella militanza - quando scende nella strana location scelta dell'Arcobaleno per il suo "punto comunicazione" ossia l'Hard Rock Café di Via Veneto, proprio in faccia all'ambasciata Usa, riceve un'accoglienza ancora più strana. Di affetto, di sostegno, di empatia da parte delle e dei militanti che hanno come lui passato le ore appesi al filo della sfida dell'esclusione dalla rappresentanza, per vederlo alla fine spezzarsi. Applausi, grida di «grazie presidente», di «bravo Fausto»: strano, precisamente straniante se si avesse la percezione di questa sconfitta come una semplice fine. Un saldo finale senza possibilità di futuro. E invece c'è un senso in quell'abbraccio tra chi ci ha creduto sino all'ultimo, sapendo benissimo delle difficoltà e dei rischi, e chi la sfida l'ha legata al suo stesso nome, avendo per primo additato la difficoltà e il rischio proprio come fondamento d'una necessità di "provarci". Proprio questo, in verità, è l'assillo principale del Bertinotti del giorno della sconfitta: indicare che questo esito, semplicemente, «drammatizza la necessità che avevamo raccolto». La rende, propriamente, storica a partire dalla stessa dimensione storica del colpo subito. «Un naufragio», ci dice riflettendo in una pausa dal confronto con lo stillicidio delle proiezioni e dei risultati parziali: un naufragio dentro «un diluvio». Ecco: l'assillo immediato è un imperativo di metodo per stabilire una condizione essenziale all'elaborazione della nuova realtà. Cioè la «responsabilità» di «riconoscere la sconfitta». Riconoscerne tutti i termini. Che non possono essere ridotti a quel che pure si era denunciato come «rischio», ora resosi concreto. Non è «causa» sufficiente della sconfitta, quindi, «la controriforma istituzionale che s'è anticipata nella campagna elettorale e nelle scelte complementari del Pdl e del Pd di Veltroni, l'anticipazione del presidenzialismo». Né «l'americanizzazione» come realtà attesa da quel processo d'anticipazione. Né, soggettivamente, l'insieme delle «scelte del Partito democratico». Ragione Bertinotti: «questi elementi ci sono tutti, sono reali e hanno agito. Ma tutti sono, per noi, solo delle concause. La sconfitta, che pure è segnata da questi, resta la nostra». Ossia: «L'alluvione c'è, ma perché ad esso non ha resistito l'argine, tanto più che si presentava come proiettato nella costruzione d'una nuova realtà?». Già, il "cammino" evocato per l'immediato indomani del voto. Che fine fa, ora, l'appello a costituire il passo ulteriore d'una "nuova sinistra"? La risposta di Bertinotti è, intanto, la convocazione d'una riflessione ineludibile: ancora, quella sulla sconfitta. «La sinistra non può pensare di riprendere il cammino senza rimuovere l'ostacolo». Quello costituito da questa esclusione, così storica. Subito, però, appare un'altra faccia della necessità: «Dicendo questo - è il corollario - diciamo che nemmeno si può rimuovere l'ostacolo senza riprendere il cammino». Senza volere, cioè, proseguire - nelle forme possibili e costituibili ora - il "viaggio" evocato nella stessa campagna elettorale. Quello verso la «ricostruzione, anzi di più la costruzione» d'una sinistra che «faccia i conti con tutto ciò che occorre mettere in discussione: forme d'organizzazione, linguaggi, culture politiche». Tutto ciò, aggiunge adesso Bertinotti, che evidentemente «ha a che fare con il piombo nella ali che si è rivelato nella sconfitta». Dunque è qui, la «drammatizzazione»: che insiste su un compito doppio. Prima di tutto, «avviare una riflessione di fondo su un intero ciclo storico della sinistra italiana come pure, però, sul tempo recente» - quello dell'esperienza della scommessa di governo e della sua implosione, tanto pagata nelle urne: perché "nessuno", si ripete Bertinotti, «aveva previsto una dimensione tale del possibile insuccesso». Insomma, «non abbiamo capito, quindi non capivamo più». La "nostra gente" e insieme la società italiana, è il sottinteso. Poi c'è l'altro corno della necessità e della scelta cui finalizzare la riflessione, anzi "alla cui luce" svolgerla: «realizzare il viaggio». Una «necessità etica oltre che politica», a questo punto, vista proprio la dimensione storica dell'esclusione. Una scelta, naturalmente: da misurare sulla restante, più larga, latitudine di quel che con queste elezioni è accaduto nella politica italiana. «Aveva ragione Giorgio Agamben» dice Bertinotti alludendo al discorso del filosofo sull'egemonia del «paradigma della governa mentalità» come coazione della politica: in termini concreti, «si è convinta la gente che si vota solo per il governo». Una prima volta che fa di questo voto «il primo post-repubblicano». In forza, certo, delle scelte in quella direzione fatte dal Pd. Ma qui c'è la "follia" soggettiva dell'evento-elezioni: «Veltroni ha puntato tutto sul voto utile e sulla sfida presidenzialista, riuscendo alla fine a prosciugare la sinistra ma senza sfondare minimamente a destra e nemmeno al centro». Questo dicono le cifre. E dicono d'uno «smottamento complessivo», testimoniato dal successo specifico «delle forche del Nord e di quelle del Sud», leggasi Lega e dipietrismo. Dunque, è confutata anche la strategia veltroniana, che pure tanto ha contribuito alla "svolta" storica del carattere politico di queste elezioni, che «mettono fuori la sinistra» e insieme pongono l'orizzonte della politica fuori dalla «fondazione costituzionale», da un quadro di democrazia parlamentare e da una ricchezza d'espressione della società italiana nella rappresentanza: fondamentalmente fuori da qualsiasi perdurare di speranze sulla capacità degli istituti democratici di misurarsi con istanze di cambiamento, persino di miglioramento (delle condizioni di vita). Ma quel fallimento avventuristico, per così dire, delle scelte del "loft" nulla toglie alla profondità del problema della sinistra, ora. Un problema che si è fatto materialmente esistenziale, almeno a riguardo del rapporto tra sinistra e politica. Un problema che solo uno "spirito costituente" può affrontare restituendone la necessità: fattasi appunto «molto più drammatica», dunque urgente, da ieri. «Io finisco qui», dice Bertinotti: ma intende qui come questo messaggio di scelta necessaria. Le cui forme, il cui grado di determinazione, la cui conduzione «da oggi sono affidate, davvero, ad un ricambio altrettanto necessario». Poi, si vedrà «chi ci sarà». L'ultima parola di Bertinotti è ovvia: «Io spero che ci siano tutte e tutti, che nessuno si sottragga». Perché la latitudine della sconfitta «riguarda il "noi" della sinistra politica che c'è e che siamo», ma soprattutto «riguarda l'esistenza stessa d'una sinistra italiana». Ed è al cospetto di questo problema, adesso spalancato, che sta la responsabilità di quel "noi": di non riguardarsi più per sé stesso, insomma. E di compiere in fondo la riflessione sulla sconfitta, cioè su di sé e sul proprio limite. Fin qui, Bertinotti: il resto, se ci sarà, sta a quel "è noi", pur che vada oltre sé stesso. Verso tutte e tutti quelli che si sentono riguardati da quella che, da ieri in Italia, è la «questione-sinistra».
15 Aprile 2008
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