venerdì 30 gennaio 2009

www.nichivendola.it

E' on-line l'intervento conclusivo di Nichi Vendola al Seminario nazionale di Rifondazione per la Sinistra - 24 e 25 gennaio - a Chianciano.

www.nichivendola.it

Intervento conclusivo di Nichi Vendola - 25 gennaio - Chianciano.

E dunque, compagne e compagni, abbiamo aperto la porta della nostra casa, e qui, a Chianciano, abbiamo deciso di uscire fuori, di cominciare non un partito, di cominciare un partire. Abbiamo deciso di cominciare un nuovo cammino insieme. Chiedo agli operatori dell’informazione attenzione su questo punto: il simbolo che è qui, su questo podio, oggi verrà consegnato agli archivi. È stato il simbolo di questi sei mesi, del tentativo di costruire un’area. Oggi dobbiamo pensare a simboli da costruire insieme e che possano parlare di una speranza e di un processo molto più largo di noi... Segue nel primo post.

Il 2 febbraio e la nuova Sinistra in Irpinia.

di Gennaro Imbriano / Movimento per la Sinistra

Il 2 febbraio, Irpinia, rappresenta una giornata costituente per una nuova Sinistra, una Sinistra che deve coniugare l’avanzata dei diritti sociali con la prospettiva dei diritti civili. Una Sinistra delle libertà e del lavoro. Per questo, in mattinata, il Movimento per la Sinistra sarà a Montevergine con Vladimir Luxuria e Titti De Simone per partecipare al Candelora-day. Un appuntamento che abbiamo contribuito a far crescere in questi anni, e che ormai rappresenta un evento di rilievo nazionale per i movimenti libertari, per l’affermazione di diritti civili e affettivi per tutti e tutte. E poi, nel pomeriggio, ad Avellino, saremo al fianco della Cgil. Per far sentire, ad un Governo che bloccherà l’intera città per una inutile parata elettorale, tutto il nostro dissenso.Il dissenso dei lavoratori licenziati, di quelli cassintegrati e in mobilità che il Governo ha abbandonato di fronte a questa terribile crisi economica e sociale.Il dissenso delle giovani generazioni, a cui vorrebbero smantellare la scuola pubblica e lasciare un futuro di assoluta precarietà.Il dissenso del popolo del Sud, penalizzato da una politica sempre più leghista, che sottrae risorse ai nostri territori.Il dissenso dell’Irpinia democratica, che non vuole sbarramenti e manomissioni della legge elettorale per le europee.Il dissenso del mondo del lavoro, oggi che stanno attaccando il contratto collettivo nazionale e l’autonomia del sindacato. Il 2 febbraio, tutta l’Irpinia progressista e democratica si faccia sentire. Riprendiamoci il futuro!

MOVIMENTO per la SINISTRA Provincia di Avellino

mercoledì 28 gennaio 2009

OLTRE RIFONDAZIONE... In "MOVIMENTO PER LA SINISTRA".

Andiamo oltre Rifondazione.

Consapevoli di quanto sia ormai profondamente stravolto il profilo politico
e culturale del Prc, usciamo dal Partito di cui siamo stati, per molti anni,
attivisti e dirigenti.

Scegliamo di vivere, avanti, a Sinistra, una nuova necessaria sfida.

Ce lo chiedono le terribili condizioni di un mondo devastato dalla spirale
guerra-terrorismo; le proteste dei ragazzi e delle ragazze dell'Onda e la
loro dichiarata irrappresentabilità; le mobilitazioni di questi mesi, il
recente sciopero generale della CGIL e il tentativo di attaccare il
contratto collettivo nazionale. Ce lo chiede il Mezzogiorno, ormai
cancellato dall'agenda politica dei partiti e del Parlamento e a cui si
continua a sottrarre risorse; lo impone la gravità della crisi economica in
un Paese, ogni giorno, più ingiusto e diseguale.

C'è bisogno di una Sinistra aperta, che sappia avvicinarsi alla sua gente, a
chi è deluso e scoraggiato.

Una Sinistra che non sia muta, che voglia parlare a chi non si sente
rappresentato né dal moderatismo del PD, né dal populismo giustizialista di
Idv, né dalla marginalità di questo Prc.

Una Sinistra della speranza, capace di contrastare la società della paura
che genera razzismo e restrizioni securitarie.

Una Sinistra della partecipazione, che adotti la trasparenza e la democrazia
come necessità e occasione.

Una Sinistra intelligente e curiosa, che, sfuggendo alle scorciatoie
minoritarie dell'identitarismo, si adoperi per arrestare l'attuale egemonia
di destra nella società, in difesa delle antiche conquiste e dei nuovi
diritti.

Una Sinistra di alternativa, che voglia "cambiare lo stato di cose
presente", capace di far crescere, tra le generazioni, una domanda per una
nuova società.

Una Sinistra del conflitto, ma che non abbia il tabù del governo.

Una Sinistra innovativa, in grado di indicare una via d'uscita dalla crisi
che scommetta sulla sostenibilità ambientale, sulla riconversione ecologica
dell'industria, su un nuovo intervento pubblico.

Una Sinistra di opposizione, consapevoli che questo Paese possa ancora
essere cambiato.

Una Sinistra delle nuove generazioni, che contrasti radicalmente la gabbia
della precarietà e lo smantellamento della ricerca e della scuola pubblica.

Una Sinistra dei territori, che sappia indagare le criticità e indicare un
futuro alle nostre comunità.

Una Sinistra più unita e più forte anche per l'Irpinia, dove le forze di
centrosinistra ancora non riescono a definire un progetto di cambiamento
credibile, anche di fronte all'inedita definizione dell'asse politico tra De
Mita ed il PdL.

Questa è la Sinistra che vogliamo costruire assieme a tante e tanti.

Una Sinistra del XXI secolo: ambientalista, europea, femminista, laica,
nonviolenta, pacifista.

Una Sinistra di popolo e del lavoro, delle diversità e della contaminazione.

Una Sinistra dell'uguaglianza e della libertà.

Per questo nasce, oggi, in Irpinia, il Movimento per la Sinistra.




Primi firmatari:



Gennaro Imbriano / Segretario Provinciale di Avellino; Comitato Politico
Nazionale Prc-Se.

Cinzia Spiniello / Comitato Politico Regionale e Provinciale; Circolo di Atripalda.

Pompilio Albanese / Comitato Politico Regionale e Provinciale; Segretario Circolo di Montecalvo.

Maria Grazia Valentino / Comitato Politico Regionale e Provinciale;
Consigliere Comunale a Nusco.

Generoso Bruno / Comitato Politico Regionale e Provinciale; Circolo di
Avellino

Emilio Ciotta / Comitato Politico Provinciale; Assessore a Lioni

Andrea Canonico / Segretario Circolo di Baiano; Comitato Politico Provinciale.

Giuseppina Buscaino / Comitato Politico Provinciale e Regionale, Altavilla.

Rino De Vinco / già Presidente del Centro Sociale "Male passo".

Tommaso Gaeta / Segretario Circolo di Solofra, Comitato Politico Provinciale.

Giovanni Filippone / già Componente Collegio Provinciale di Garanzia; Circolo di Frigento.

Luca Criscuoli / Segretario Circolo di Atripalda; Comitato Politico
Provinciale.

Corrado Festa / Segretario Circolo S.Angelo dei Lombardi; Comitato Politico Provinciale.

Peppino Beatrice / Comitato Politico Provinciale; Bonito.

Agostino Pelullo / Comitato Politico Provinciale; Assessore a Bisaccia.

Amalia Hilda Tobar Barrionuevo / ex Segretaria Circolo di Solofra.

Francesco Melillo / Comitato Politico Provinciale; Presidente Ass. "Rossofisso".

Vincenzo Panico / Segretario Circolo di Lacedonia; Comitato Politico
Provinciale.

Giuseppe Caputo / Comitato Politico Provinciale; Assessore a Bagnoli Irpino.

Antonio Diana / Segretario Circolo di S.Paolina; Comitato Politico
Provinciale.

Maria Antonietta Ruggiero / Segretaria Circolo di Lioni, Comitato Politico Provinciale.

Marco Petruzziello / Segretario Circolo Pratola Serra; Comitato Politico Provinciale.

Lorenzo Santoro / Comitato Politico Provinciale, Pratola Serra.

Vladimir Luxuria: "la Candelora, un ponte per unire".

Da un gesto di intolleranza e chiusura un grande movimento di amore e accoglimento.
Otto anni fa l'abate di Montevergine con il suo “State profanando il tempio di Dio. Le vostre preghiere non sono gradite” negò un diritto sacrosanto a chi era andato ad offrire a Mamma Schiavona la propria devozione come ogni anno, come da tradizione. Quel gesto mobilitò associazioni e singoli cittadini indignati per la violenza di quelle parole. Il primo Femminiello pride nacque così, come naturale e spontanea reazione alle parole dell'abate Tarcisio Nazzaro che paragonò i femminielli ai mercanti cacciati da dal tempio.
Da quel Femminiello pride colorato e improvvisato si è passati al Candelora Day, un incontro fisso creato da una rete regionale di associazioni movimenti e cittadini che da quest'anno ha ha attivato la “Rete Nazionale per la Candelora”. Grazie all'impegno di associazioni come i-ken, Mit di Napoli, Zia Lidia Social Club e Rossofisso, la rete ha varcato i confini regionali dando forza al messaggio del Candelora Day: “Libero amore in libero stato”. Un messaggio condiviso da Valdimir Luxuria, presente dai tempi del primo femminiello pride:


“Il Candelora Day è una offerta di dialogo- ha ribadito Vladimir Luxuria - un ponte lanciato per unire e mettere a confronto sensibilità e culture diverse. Come da tradizione ci sarà la celebrazione della Candelora che è la dimostrazione di come fede ed orientamento sessuale, identità di genere di trans, gay, lesbiche e trans gender non siano incompatibili. Nella battaglia per l'equiparazione dei diritti tra tutti i cittadini rientra anche quella per il diritto alla fede ed alla spiritualità. Per questo io sarò a Montevergine, non come cattolica ma come persona che vuole essere vicina ai gay alle lesbiche a trans e transgender che credono fermamente di essere creature protette da Mamma Schiavona, alla quale vanno a rendere omaggio. Sono certa che anche quest'anno la festa sarà spiritualmente molto forte e mi auguro che ancora un volta riesca a dimostrare che cattolici e femminielli possono convivere nonostante le recenti dichiarazioni di Ratzinger che ha definito i transgender persone distruttive”.

Visioni, ad Avellino, torna il cinema d'autore.

Giovedì 5 febbraio inizia la XX rassegna di cinema d'autore Visioni, organizzata dal Centro Donna con la collaborazione di Quaderni di Cinemasud, presso il Cinema Partenio di Avellino.

Il primo film proposto è "Il matrimonio di Lorna" dei fratelli Dardenne, premiato all'ultimo Festival di Cannes per la migliore sceneggiatura.


lunedì 26 gennaio 2009

Anche Avellino in "Movimento per la Sinistra".

Martedì 27, alle ore 17, presso il Centro Sociale "Della Porta" di
Avellino, nascerà anche in Irpinia il Movimento per la Sinistra.

In una conferenza stampa, molti dirigenti, attivisti e amministratori
dell'Area Vendola dichiareranno la loro adesione al nuovo soggetto della
Sinistra che è stato appena lanciato a Chianciano da Nichi Vendola.

Tra gli altri, interverranno alla conferenza: Gennaro Imbriano, Segretario
provinciale Prc, Cinzia Spiniello, Coordinatrice di Rifondazione per la
Sinistra, e Peppe De Cristofaro, Segretario regionale del Prc.

A seguire ci sarà la prima riunione del Movimento per la Sinistra.

Candelora: Ecco il programma.



Domenica 01 febbraio.: Waiting Candelora
H.20 cena + DISCO
OPEN H 23 Queer night DANCE FLORE by MUCCASSASSINA
Fabio Lanzone dj, Tsunami drang Queen è ballerini gogo
@ Agriturismo Marsella - Via Marroni n.1 - 83010 Summonte (Avellino)

Lunedì 02 febbraio.: Juta a montevergine
H.10 ingresso funicolare stazione mercogliano e MANIFESTAZIONE
H.14 pranzo + tombolella dei femminielli con Gina Piscitelli + estrazione viaggio in Capitale Europea per 2 persone A\R by Luxuria
@Agriturismo Marsella Via Marroni n.1 - 83010 Summonte (Avellino)

Su prenotazione è possibile riservare un posto in BUS da Napoli ed una Camera per il Pernottamento
chiama i numeri per info e prenotazioni: 347 7810076; 392 3887147; 329 1683634
http://www.i-ken.org/candeloraraday.htm

Vendola: "Un nuovo inizio, un nuovo partire".

Intervento introduttivo di Nichi Vendola al Seminario nazionale di Rifondazione per la Sinistra - 24 e 25 Gennaio, Chianciano



“A distanza di pochi mesi noi torniamo a Chianciano, nel luogo in cui la storia di Rifondazione comunista è precipitata dentro un buco nero. Nel breve intervallo di tempo che ci separa dal luglio afoso del congresso del Prc, il mondo ha conosciuto straordinari cambiamenti, un vero passaggio d’epoca ha liquidato tante leggende e superstizioni ideologiche che hanno innervato il racconto egemonico della globalizzazione liberista, si è rotto il livido mappamondo che ruotava sull’asse della teocrazia finanziaria e della guerra infinita, sono esplose in forme spettacolari contraddizioni che dicono di una crisi strutturale del nostro ambiente sociale e del nostro ambiente naturale. Ma, a dispetto di questo vorticoso accumulo di punti di crisi e di accelerazioni della storia umana, tutti noi siamo rimasti come immobili, risucchiati nel gorgo della contesa intestina, prigionieri della deriva populistica e identitaria del nostro partito, sgomenti per la torsione vetero-comunista di una vicenda, quale quella di Rifondazione, che fin dall’inizio e fin dal suo stesso nome si era presentata ed era cresciuta come un cantiere di revisioni culturali e di innovazioni politiche. Siamo stati comunisti non per un bisogno di fedeltà al passato, ma per un bisogno di libertà del presente e del futuro. Siamo comunisti non per replicare, nei secoli dei secoli, una storia codificata, una liturgia monotona, una forma statica che contiene una verità rivelata: ma per liberarci dai fantasmi e dai feticci di un mondo che strumentalizza la vita, mercifica il lavoro, distrugge la socialità. Chi pensa che il comunismo sia una declamazione, un percorso provvidenziale che va solo ripulito dalle ombre dell’eclettismo e del revisionismo, chi lo custodisce come una reliquia e lo offre alla oscura modernità in cui viviamo come una talismano politico, chi lo annuncia come una fede e lo vende a buon prezzo come il pane da spezzare insieme per esorcizzare la paura della crisi: chi fa così merita certamente rispetto, ma agisce la politica come fuoriuscita dalla realtà e come rinuncia alla trasformazione dello stato delle cose. E noi che vogliamo emendarci dalla pratica dell’anatema e del disprezzo, oggi dobbiamo disarmare parole e sentimenti con cui attraversiamo la scena pubblica, anche per evitare che la nitidezza di una battaglia politico-culturale (quella contro il dogmatismo, il settarismo e il minoritarismo) possa essere confusa con una questione di risentimenti e di rendiconti interni al ceto separato della politica. Quel prototipo di comunismo settario e autocelebrativo è stato più volte sconfitto e ridotto alla più insignificante marginalità. Già al tempo delle “Tesi di Lione” e della lotta aspra al bordighismo, ma poi in tutta la titanica fatica dei “quaderni del carcere”, Gramsci restituisce un’immagine del comunismo aliena da qualsivoglia conformismo dogmatico: non una scolastica, non una precettistica, non un catechismo, insomma non un calco ideologico a cui piegare la realtà, ma una ricerca libera e gigantesca sulle radici storiche della sconfitta della rivoluzione in Occidente. Il comunismo come sviluppo di una domanda piuttosto che come reiterazione ossessiva di una risposta preconfezionata. Il comunismo come ricerca e movimento reale piuttosto che come farmacopea o invocazione dottrinaria. E nell’immaginare il Partito come “intellettuale collettivo” - e dunque come soggetto vocato a rompere la separatezza tra “autonomia del politico” e “autonomia del sociale” - gli affidava il compito di essere il “moderno Principe” che promuove la “riforma morale e intellettuale” del Paese: il Principe del Machiavelli era il soggetto politico e istituzionale che cercava con estrema spregiudicatezza di sconfiggere la logica feudale della centrifugazione in tante “piccole patrie” fondate su pretese araldiche o su sussulti localistici, il promotore di un processo di costituzione di un nucleo di moderna statualità fatta di un processo di unificazione territoriale e di omogeneizzazione culturale. Il moderno Principe gramsciano cammina su una grande frattura storico-sociale, quella “questione meridionale” che spiega la natura del capitalismo nostrano e evoca la “debolezza egemonica” della borghesia italiana già al tempo del Risorgimento. In questa prospettiva il partito non è davvero un fine, né tanto meno un predicatore ideologico o una enclave di “uomini nuovi”, bensì è una rete intelligente di lotte ed esperienze che ha senso in quanto organizza, nella società e nei luoghi in cui si produce società, la critica corale delle culture che mistificano e inibiscono la spinta sociale al cambiamento. E, dentro questo fuoco, il partito tesse la tela di un blocco sociale alternativo alla coalizione dominante, alternativo a quella alleanza di ceti speculativi e parassitari che sarà il letto in cui scorrerà il fiume del fascismo. Più tardi, dopo il tempo della clandestinità e della prigionia e dell’esilio, sarà il “partito nuovo” togliattiano a bruciare i residui di una concezione avanguardistico-pedagogica del partito, sarà quella la stagione dell’aderire ad ogni piega della società, e cioè della costruzione plurale e unitaria di movimenti sociali di massa che, nella moderna città industriale come nell’arcaica campagna del latifondo, potessero intrecciare il percorso emancipativo con l’educazione civile alle virtù della libertà. In quella parabola straordinaria, classe e popolo, anticapitalismo e democrazia, sono concetti che vivono in un equilibrio creativo, non dentro architetture ideologiche asfittiche ma come nodi della storia, della società e della vita, nodi da sciogliere nell’agire politico, e in un agire che era innanzitutto pensiero, analisi dei processi materiali, consapevolezza culturale della storia nazionale, orizzonte europeo ed internazionalista del proprio progetto politico. Anche la stampa comunista verrà concepita e governata come una rete di intelligenze e di esperienze intellettuali originali, come lo sviluppo di laboratori e di officine delle idee. Nell’Unità togliattiana si formeranno intere generazioni di giornalisti di razza, non leve di velinari e di agit prop, ma grandi penne del giornalismo d’inchiesta, del giornalismo colto e militante. Sono storie note, quelle che hanno fatto del Partito Comunista Italiano il protagonista fascinoso e popolare di una doppia anomalia: anomalia di un Paese così vitalmente segnato nel suo sviluppo democratico dal ruolo e dall’autorevolezza dei comunisti italiani, anomalia di un partito che si liberava progressivamente della soggezione al campo e alle mitologie dell’Unione Sovietica. Il Pci fu il punto più alto di espansione egemonica della sinistra in Occidente, e fu allo stesso tempo il punto più importante di autocritica del comunismo novecentesco. Fino alle parole nitide e per certi versi definitive di Enrico Berlinguer a proposito di “esaurimento della spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre”. Questa vicenda, che ovviamente fu arricchita (ma spesso anche impoverita) dalle esperienze delle sinistre critiche e dei gruppi extra-parlamentari, non può che essere il nostro punto di partenza: e infatti di lì partimmo per reagire alla prospettiva della liquidazione del Pci dopo la svolta della Bolognina. Non per revisionare le revisioni, non per abiurare dalle abiure, ma per dire di una cultura politica che era comunista nella misura in cui faceva della lotta contro ogni principio totalitario e contro ogni pratica di alienazione la propria ragione di vita. Noi difendemmo il Pci perché consideravamo ingiusto seppellirlo sotto le macerie del Muro di Berlino: ma non stavamo difendendo quel maledetto muro, la sua monumentale vergogna, il suo recintare sotto un controllo ferreo e cupo “le vite degli altri” (per citare il titolo di un bellissimo e doloroso film sulla Germania Est). Noi difendemmo il partito che, dentro un processo lungo e complesso, aveva segnato la rottura del “campo” comunista, che aveva con quello strappo dall’Urss riaperto e non chiuso la “questione comunista” come critica del modello di sviluppo e denuncia della società bi-fronte dello spreco e della penuria. Il socialismo reale, che pure a noi appariva così clamorosamente irreale, si era schiantato, squagliato rapidamente come neve al sole, e il mappamondo aveva perduto uno dei suoi punti cardinali, l’Est. Quel mondo era crepato non per un eccesso di comunismo, ma per un clamoroso deficit di comunismo: perché era una costellazione di regimi autocratici, perché le libertà fondamentali erano conculcate, perché il circuito dell’informazione era dominato dalla pratica della censura e dalla pedagogia della menzogna, perché il dissenso significava rovina e morte, perché il lavoro era alienato e alienante, l’economia dominata dai burocrati, la promessa della “socializzazione dei mezzi di produzione” fraintesa e confusa con quello che l’estrema sinistra chiamò il “capitalismo monopolistico di Stato” che aveva ridotto ad una cifra grottesca i sogni dell’Ottobre. Dentro questo solco ha camminato la nostra Rifondazione, fino all’approdo teoricamente e politicamente più impegnativo: quello dell’assunzione del paradigma della nonviolenza. Un salto anche di linguaggio, l’ingresso in un universo semantico e simbolico ricco e stimolante: non la rinuncia alla critica di classe, ma il suo esodo dalle antiche mitologie della conquista del Palazzo d’Inverno, la sua capacità di contaminarsi con la critica radicale dei meccanismi di produzione della violenza e della violenza che si fa potere: la critica del patriarcato e del vocabolario maschile che nomina ed eternizza un mondo mutilato della libertà femminile; la critica di un modello di crescita economica che usa la biosfera come una discarica, che dissipa ogni giorno un segmento di quel patrimonio di biodiversità e di multiculturalità che costituisce la ricchezza della vita e il senso della vita. La viva vita, non quella ideologizzata da molti pulpiti più o meno sinceri. La vita vera di cui dobbiamo garantire, per tutti e per ciascuno, per tutte e per ciascuna, l’assoluta inviolabilità, la sua irriducibilità, per chiunque, a corpo contundente, a strumento, a oggetto, a cosa da usare e di cui abusare: quanti album di foto sui corpi dei nemici uccisi, uccisi e poi straziati, straziati ed esibiti come trofei, ci sono nei depositi remoti della nostra psicologia sociale? Quanto bisogno, ancora oggi, tutti noi abbiamo di dotarci di un nemico capace di darci identità, e più lo odiamo più sentiamo di possedere consistenza? e ucciderlo simbolicamente e spesso anche materialmente coincide con la nostra massima auto-affermazione: negare la vita a chi è il mio altrove, mi dà la tranquillità di stare dove sto e di essere ciò che sono. Se uccido un infedele dimostro quanto sia cruciale coltivare fedeltà. E dunque la vita: non il terreno di un dominio etico-ideologico ma la vita determinata delle persone vive. Non l’imperio sulla giurisdizione della vita, sul chi decide del suo inizio e della sua fine, con questa finta morale che è confessionale e si camuffa da morale naturale: cosa ci sia di naturale nell’accanimento neppure terapeutico sul corpo-simbolo di Eluana è difficile dirlo, così come è difficile capire dove sia emigrata la coscienza laica di un Paese in cui bisogna aprire una contesa politica per eseguire una sentenza inappellabile pronunciata da una corte suprema, così come è difficile capire dove sia precipitata quella pietas cristiana che pare soppiantata da un “magistero della paura” che riporta la Chiesa a prima del Concilio e che piuttosto che annunciare una “buona novella” si specializza negli anatemi contro l’umanità peccatrice.
La viva vita, insomma. Quella che ci interroga senza sosta, dopo Auschwitz e Hiroshima, dopo l’organizzazione scientifica dell’industria dello sterminio di massa, dopo i virtuosismi burocratici delle deportazioni e delle rieducazioni, dopo i gulag e le fosse comuni, dopo le guerre calde e quella fredda, dopo le guerre a bassa intensità e le macellerie sudamericane, dopo le guerre etniche e quelle religiose e quelle tribali e quelle telecomandate come videogames, dopo gli hotel Ruanda; e ora, durante questa lunga lenta oscena strage di Gaza, qui dentro il crinale più melmoso, dentro l’orizzonte di onnipotenza e nichilismo che è stato battezzato “guerra infinita”, la vita vera che ci chiede pensieri e vocaboli impegnativi ed inauditi che possano ergersi come una soglia fondatrice della civiltà futura, come il cimento di tutta la politica e di tutte le culture chiamate a disegnare le mappe di un mondo nuovo. La vita altrui che è il paradigma del limite nostro, violando il quale romperemmo il senso stesso della nostra vita e di tutta la vita.
E se questi sono i compiti, se questa è la semina a cui dobbiamo dedicare il nostro impegno, se queste sono le sfide su cui ridefinire il senso e il modo dell’agire politico, a che vale resistere in una trincea che sentiamo arretrata, persistere in una appartenenza che ci appare vieppiù fuori luogo e fuori tempo? Se questo è il cimento che più ci intriga e più ci motiva, come possiamo mettere tra parentesi la piccola storia ignobile del processo sommario e della condanna di un collettivo redazionale e di un direttore che hanno fatto di Liberazione un giornale vivo, un luogo della libertà e delle idee, piuttosto che un morto repertorio della linea del gruppo dirigente del Partito? Sansonetti non era comunista al punto giusto oppure non lo era affatto? E allora? Era stato indicato lui, dopo l’esperienza formidabile e altrettanto libera del nostro caro indimenticabile Sandro Curzi, proprio per questo: perché Liberazione non fosse uno specchio del partito, ma una finestra aperta sul mondo.
E questa vicenda evoca troppe ombre di una storia antica e dice di un corto-circuito dentro la nostra comunità politica: non si è rotta solo la politica, è andata in pezzi la comunità. Allora occorreva davvero tornare a Cianciano per rimuovere il blocco, per trarre le conseguenze, per uscire dalla paralisi. Proprio perché l’altra sinistra, quella mirata al centro, sembra persa nei propri contorcimenti tattici, incapace di un pensiero che non sia subalterno al piano inclinato del governare in sintonia esibita con i poteri forti, proprio perché il veltronismo si presenta ormai come un mix compiuto di radicalismo etico e di moderatismo sociale che pratica la prospettiva di una “alternanza senza alternativa”, proprio per queste ragioni non possiamo condividere una linea politica che insegue la retorica del sociale (”in basso a sinistra”), del sociale assunto come luogo della salvezza e della rigenerazione, una sorta di Periferia planetaria in cui dare domicilio e protezione all’innocenza dell’ideologia. Le due sinistre oggi sembrano convergere in un unico destino: quello di estinguere le proprie ragioni sociali e la propria missione politica, chi sull’altare del governo, chi nella polvere dell’opposizione; il cupo destino di una sinistra che non è più capace di autonomia intellettuale e di distinzione morale, che fatica persino a comunicare le parole-chiave del proprio vocabolario, che certo ha smarrito interi patrimoni di quel principio-speranza che fa della politica una leva di impegno civile e di passione collettiva. L’Amarcord della sinistra mi intriga e mi serve, ma a condizione di non pensare a pratiche di riesumazione. Non ci sono resurrezioni in politica, ma solo nuovi parti, un nuovo partire piuttosto che un nuovo partito, un processo piuttosto che una sigla, una nuova casa in cui la sinistra delle libertà possa ospitare comunità di popolo e non elites di presunte avanguardie. Perchè il senso della sinistra sta tutto nella capacità di prefigurare e costruire il cambiamento: che non è una vaga aspirazione letteraria della coscienza del cittadino astrattamente inteso. Ma è la critica pratica di un economicismo che aliena nel processo produttivo tanta umanità, la riduce al rango di “costo del lavoro” e la soffoca nella dimensione generale del precariato. Il cambiamento o morde la polpa dei “rapporti di produzione” oppure è semplicemente un giro di valzer nel tempo libero. Qui c’è, tutto intero e profondo, il discrimine tra destra e sinistra. Il cambiamento è il rovesciamento materiale e culturale dell’egemonia liberista che ha segnato lo stile del processo di mondializzazione e di finanziarizzazione dell’economia. Per questo il Partito Democratico non ha una lettura critica delle ragioni della crisi vorticosa dei mercati finanziari internazionali, osserva l’avanzare delle nubi nere della crisi e della recessione come se fosse un fenomeno meteorologico, una calamità naturale, e non piuttosto la logica conseguenza di una filosofia economica che ha assoggettato la politica e introdotto la storia umana nel ciclo della “produzione di denaro a mezzo di denaro”, un tempo di svalorizzazione del lavoro e di enfatizzazione della ricchezza che si riproduce per partenogenesi, un tempo in cui, a destra come a sinistra, la modernità del mercato è divenuta l’unico regolatore sociale e il cuore della discussione politica. E gli slogan liberisti hanno fatto breccia a sinistra, fino a divenire - incredibilmente - sinonimi di riformismo. E il centro-sinistra ha fatto una critica più di forma che di sostanza al partito mondiale del liberismo: non contestarne l’impianto, ma attenuarne gli effetti sociali, ridurne i danni ambientali, censurarne gli eccessi. Da troppi anni in Italia, ma non solo, più si scivola a destra e più ci si identifica come riformisti, fino al punto che nella larga opinione pubblica, e per diverse volte, il più innovatore e il più riformista di tutti è apparso Silvio Berlusconi. Ma quando il centro-sinistra ha strappato, e per un pelo, il governo alle destre, non è stato in grado di indicare una visione generale, né di segnare una significativa inversione di tendenza rispetto a quella egemonia liberista che pure aveva conosciuto la straordinaria opposizione dei movimenti altermondialisti e della corale mobilitazione pacifista: il governo Prodi non ha provato neanche a mutare l’ordine del discorso di una realpolitik che chiedeva ottusamente continuità con Mastricht, non ha inteso quale fosse l’acutezza di una crisi sociale che investiva largamente anche il ceto medio, non ha annusato l’umore popolare di crescente insofferenza per le beghe di Palazzo che esponevano un centro-sinistra senza maggioranza in uno dei due rami del Parlamento a uno stress continuo e sfibrante. L’icona della casta sigillò la caduta verticale di consenso che fece scivolare il governo verso la crisi e il centro-sinistra verso il proprio capolinea, con la conseguente sconfitta elettorale di Veltroni e la scomparsa dalle istituzioni della sinistra. Un governo senza profilo e senza collante era per Rifondazione la prova dell’impossibile: non fuggire dalle proprie responsabilità, accettare la sfida e l’occasione del governo, ma essere efficaci nel proporre una mediazione con il punto di vista della sinistra di alternativa. Avevamo il dovere di essere efficaci: che questo fosse possibile è un altro discorso. Ma che questo fosse atteso, e non solo dai nostri militanti, è evidente. La nostra inefficacia ci ha omologati al resto del centro-sinistra in un giudizio che per noi è stato inappellabile e oltremodo severo. E non ci ha salvato quel simbolo pure salvifico dell’arcobaleno, perché era solo un segno grafico e non un sogno collettivo, era un cartello elettorale e non un laboratorio della società, perché era un accordo di stati maggiori e non un patto costruito con pezzi di mondo del lavoro e di giovani generazioni, e anche perché nella sua sfortunata selezione di rappresentanza istituzionale l’arcobaleno non ebbe il coraggio di praticare la consultazione dei territori e della società civile: anche organizzando quelle primarie che debbono divenire uno dei modi ordinari di funzionamento della sinistra. Insomma lì ci siamo fratturati le ossa e abbiamo visto sfumare la speranze che in quelle elezioni potesse cominciare una storia nuova piuttosto che chiudersi una storia vecchia. Invece si chiuse la storia vecchia. In una sola volta pagammo tutti i conti in sospeso. I conti di una sconfitta la cui gestazione dura da almeno un ventennio, la cui proporzione non è semplicemente quella elettorale, la cui spiegazione non può essere infantilmente ridotta all’aver contratto il virus del governo o all’aver assunto alcuni tratti della fisiognomica della casta. La sconfitta è nella distanza dai pensieri e dai sentimenti di quella coscienza generale che, nella crisi delle organizzazioni collettive e nella crisi degli apparati formativi, si educa alla cattedra televisiva della vita e della morte in diretta. Quella cattedra ci educa ad essere capitalisti dell’anima, protagonisti o spettatori di una fiction permanente che ha abolito quei tre tempi del presente (il passato del presente, il presente del presente, il futuro del presente) che Alessandro Natta mutuava da Sant’Agostino. Oggi noi viviamo in un presente senza tempo, senza scansione storica, senza spessore cronologico: quando noi parliamo del Novecento, alludendo a questioni cruciali che hanno animato immense speranze o che hanno generato immani tragedie, parliamo di un tempo che ha il suo spessore e il suo deposito di senso. Ma a chi stiamo parlando? Chi ci capisce? La comunicazione veloce, il tempo reale di scambio comunicativo nella comunità virtuale di Internet, ha come certificato l’avvenuta frammentazione del tempo, la sua polverizzazione, la sua esposizione alle intemperie del contingente. I morti sul lavoro sono cronaca nera, una colonnina tra le altre nelle statistiche ufficiali: non sono una sequenza, non sono un tempo significante, non vediamo più la strage come un nodo da tagliare con la lama del diritto alla vita. La morte è contemplata, come il licenziamento. Sono leggi metafisiche dell’economia. Oppure che cos’è il tempo di chi è appeso ad un contratto a progetto, per chi è interinale, per chi veste uno dei tanti abiti con cui nascondiamo quel gigantesco ricatto che pesa sui giovani e che rompe il loro tempo di vita, quel ricatto che è la precarietà, il contratto a tempo determinato, cioè a tempo ferito e svuotato di senso del futuro? Oppure in che tempo, o su che canale tv, avviene la tempesta di proiettili e fosforo che spezzano il cuore della Palestina? Perché questa avara reazione all’assedio di Gaza? Eppure lì non va in onda un vecchio film in bianco e nero, lì l’ansia di pace ruzzola in uno dei tanti precipizi in cui l’avventurismo americano, coprendo la destra israeliana, ha portato la geo-politica medio-orientale. Le diplomazie dal basso e le voci del popolo pacifista faticano a ritrovare una scena pubblica, la pace ha perso i suoi profeti e i costruttori di pace sembrano decimati dalla cultura bellicista che torna ciclicamente a offrirsi come garanzia di stabilità degli equilibri mondiali. La questione palestinese resta il più incandescente banco di prova per tutte le leadership mondiali. Ora è il tempo di ridare agibilità politica e inesplorate latitudini culturali alla pace, al suo progetto di giustizia sociale e al suo orizzonte antropologico. E non esiste compito più congeniale alla sinistra del futuro che quello di essere annunciatrice e costruttrice di pace. Lavorando a costruire memoria, per poter esercitare discernimento. Continuando ad interrogare le ombre del passato, anche per poter prefigurare nuove aurore. Non dimenticando mai ciò che è stato, l’orrore del dio che è morto ad Auschwitz, il dolore di un popolo condotto al macello come un agnello sacrificale. Ecco, la sinistra ha bisogno di ritrovare il tempo perduto, nel senso che non può non sentirsi implicata dal cambiamento, non può non cambiare lei stessa, non può vivere galleggiando nella stratosfera dei propri voli passati, la sinistra ha bisogno di ossigeno, ha bisogno di una strumentazione ottica complessa e sofisticata: un po’ telescopio, un po’ microscopio, un po’ caleidoscopio. La sinistra ha bisogno di mettersi in gioco evitando di mitizzare la destra ma cercando piuttosto di conoscerne apparati di potere, sistemi di comunicazione, produzione di simboli e produzione di senso comune. Non pensare che l’invettiva possa surrogare l’analisi dell’avversario, non personalizzare la contesa politica, non demonizzare chi incarna la leadership della destra: sono avvertenze che dovrebbero liberarci dalla tentazione di cavarcela con battute da talk-show. Berlusconi è l’espressione di una radicale riforma del sistema politico e di un capovolgimento della cultura generale del Paese: il cui patriottismo si sposta progressivamente dal terreno storico e civile dell’antifascismo fino a scivolare nel terreno ideologico e melmoso dell’anticomunismo. E il Cavaliere di Arcore incarna anche il mutamento di paradigma di una costituzione materiale che al primato del lavoro (sancito dal primo articolo della Carta costituzionale) sostituisce il primato dell’impresa. Eccola dunque la destra. Quella che ha scelto il profitto mercantile come baricentro della propria strategia, ha teorizzato e quindi praticato la radicale precarizzazione del mercato del lavoro, ha detassato i patrimoni e la ricchezza, ha operato una poderosa opera di riorientamento culturale della società italiana a partire dalla criminalizzazione delle povertà e delle marginalità. La destra che ha avviato una vera bonifica giustizialista contro mendicanti e lavavetri, contro gli stranieri in condizione di clandestinità, contro prostitute e trans, contro i graffitari e contro i centri sociali. “Sorvegliare e punire” sono i verbi della macchina di controllo sociale sugli esuberi della globalizzazione: e già la coazione disciplinare comincia a mirare al cuore di un’intera civiltà del diritto: quella del diritto al lavoro, del diritto di sciopero, del diritto al dissenso. La destra evoca i fantasmi che turbano i sonni del piccolo-borghese planetario: la paura di perdere reddito e sicurezza, la paura di cedere porzioni di sovranità a chi abbiamo perfino nominato “extra-comunitario”. E contro ciò che ci minaccia la tasca o anche semplicemente lo sguardo calerà la scure di quella “dura lex” che ha riti sbrigativi e pene esemplari. Ma per compensare questa torsione di classismo giustizialista la coalizione di governo costruisce, dentro un processo di piccole e grandi riforme, la blindatura garantista della classe dominante: i cui reati svaniranno nei nuovi codici e nei processi verranno prescritti per decadenza dei termini. Il terreno securitario serve a stringere le maglie del controllo sociale e a metabolizzare un progressivo cedimento al lessico razzista e xenofobo. L’omofobia viene alimentata da una porzione delle gerarchie ecclesiastiche, viene esercitata per strada con mirate spedizioni punitive, viene sdoganata persino al festival di Sanremo. L’islamofobia è nella propaganda quotidiana del partito nordista. L’antisemitismo torna a guadagnare la sua ribalta fatta di violenza e vigliaccheria. Una bravata di giovani annoiati può costare la vita ad un povero barbone, che nel sonno dei poveri non percepisce l’umido della benzina con cui lo stanno inzuppando prima di dargli fuoco, prima di bruciare una concreta esistenza, una vita viva, così per gioco, per sentire l’adrenalina che sale mentre quel sacco sporco di umanità strepita e arde. Ma noi viviamo un’epoca in cui si accetta l’idea della social card come se fosse una politica anticiclica: il bancomat della carità serve solo a dire di una propensione compassionevole che deve accompagnare quella ferocia classista di chi al lavoratori del Pubblico impiego o ai metalmeccanici offre spiccioli, riduzione di diritti, rischi di espulsione. E mentre Tremonti ci spiega, con cipiglio accademico, che questa è una crisi finanziaria che si risolve solo con strumenti finanziari, non ci accorgiamo che ci sta dicendo che l’unico keynesismo è quello per i ricchi, ai quali si è tolta persino l’unica tassa “federalista” esistente (cioè l’Ici), mentre gli altri si arrangino. La crisi industriale blocca produzioni in settori decisivi, migliaia di lavoratori vanno in cassa integrazione, c’è un universo intero che rischia un drammatico smottamento, dilaga la paura della povertà: e allora chi paga la crisi, chi paga gli ammortizzatori sociali? E’ chiaro e semplice, può pagare il Sud. Siamo ben dentro la fase storica della rivalsa nordista, tanti amministratori locali del centro-sinistra scavalcano la Lega in quanto a declamazioni in chiave padana, il cervello economico e politico del potere oggi è tutto a Nord, inoltre all’insorgere della “questione settentrionale” il Sud ha cominciato a perdere progressivamente l’uso della parola. La “questione meridionale” si è auto-esiliata in qualche studio specialistico, ha ceduto alla forza narrativa di chi riduce il Mezzogiorno ad una patologia della nazione, il Sud è stato interamente iscritto nella rubrica della politica e del giornalismo nazionali alla voce “Gomorra”. Una caricatura che diviene un alibi. Il Sud dei talenti e dell’indignazione civile, il Sud di Roberto Saviano e dei ragazzi di Locri, il Sud del talento e della legalità, il Sud dell’innovazione e della creatività: tutto questo scompare. Così oggi il governo propone di usare, come provvista finanziaria per pagare il biglietto della crisi, le risorse del Fas e quelle del Fondo sociale europeo: sono le due gambe su cui cammina quasi per intero l’economia meridionale. Sono risorse indispensabili, in aree con disoccupazione a due cifre, anche per resistere all’urto della crisi economica che arriva. Siamo al rovesciamento di un compito generale che le classi dirigenti democratiche si sono sempre affidate: fare dello sviluppo e della modernità del Sud il terreno della compiuta unificazione della storia nazionale, puntare sul Sud come crocevia di civiltà, come congiunzione di Europa e Mediterraneo, come Occidente in seminato di Oriente. La destra propone una gigantesca redistribuzione delle risorse dai territori più poveri a quelli più ricchi, dai ceti sociali più disagiati ai ceti più privilegiati, considerando parassitaria la “spesa sociale” e ridisegnando il Welfare come filantropia di Stato piuttosto che come organizzazione delle protezioni e dei diritti sociali. Per questo noi dobbiamo aprire una questione generale sul futuro del Sud, in una stagione in cui l’esplosione di una crisi morale delle classi dirigenti del centro-sinistra soprattutto nel Mezzogiorno sembra sconsigliare qualunque giudizio equanime ed articolato su un territorio abitato da venti milioni di italiani: dobbiamo portare il Sud all’opposizione delle destre. Dobbiamo aprire una contraddizione ciclopica dentro il PD, che non riesce ad essere il catalizzatore e neppure il protagonista di una opposizione visibile e credibile a Berlusconi: ma non a causa della febbre alta della sua polemica intestina, quanto a causa della sua lettura della fase, del suo giudizio sul governo in carica, della sua strategia emendativa che supplisce al vuoto di idee forti di alternativa al berlusconismo. Il PD oggi è prigioniero del proprio leghismo, non riesce a intendere quale sia la portata dell’assalto alle casse del Sud, non ingaggia su questa una battaglia campale. La rottura dell’unità sindacale e la paurosa deriva governista e corporativa di una parte del sindacato porta il partito veltroniano ad una sorta di neutralità, per la prima volta la Cgil viene lasciata sola anche nello sciopero generale del 12 dicembre, così come nell’aspra contesa per i rinnovi contrattuali. Eppure l’assalto alla Cgil è già cominciato, è lo scalpo più prezioso che la destrapossa desiderare, perché quel sindacato è portatore di un’istanza generale di emancipazione e di giustizia. E questo assedio è organico al tentativo di dare un colpo definitivo alla contrattazione collettiva nazionale, a ciò che ancora protegge un’idea di mondo del lavoro e una storia di civiltà del lavoro. La contro-riforma della scuola e dell’Università sono stati pezzi pregiati di questa opera di sradicamento di una cultura della “res publica” che nel lavoro e nella formazione indicava il “bene comune” fondamentale della democrazia repubblicana. La scuola va re-impacchettata nelle regole di una austerità ottocentesca, con tanto di grembiulini e voti di condotta, va capovolta rispetto alle ambizioni pedagogiche di chi la immagina come palestra di libertà e di pensiero critico, un contro-68 è il programma esplicito della ministra Gelmini. Siamo alla perfetta antitesi di ciò che apprendemmo leggendo la “Lettera ad una professoressa” di don Lorenzo Milani. Qualcuno vuole fondare un’idea degli apparati formativi e una figurazione della società sui pilastri di cemento armato di una sorta di “pedagogia della paura”, una disciplina generale che rimbalza dalla scuola al lavoro, dal tempo libero all’organizzazione urbana: e che si accompagna a quella che potremmo definire educazione tecnica e spirituale alla precarietà. Affinché la scuola educhi alla paura, il lavoro somministri precarietà, la vita privata e quella sociale si srotolino come narrazioni di persone subordinate alla signoria della produzione. A questo disegno ha saputo reagire una nuova generazione, la prima generazione compiutamente esiliata dalla civiltà novecentesca (a partire ad esempio dalla generale aspettativa di una vita lavorativa precaria), un nuovo movimento studentesco ha segnato la società e ha spaventato la politica riuscendo con intelligenza a evitare la tenaglia della violenza e della criminalizzazione: come a dire che proprio lì, in quella fabbrica speciale in cui si fabbrica la riproduzione sociale, proprio nel luogo di apprendimento dei saperi e del sapere sociale, lì cova una contraddizione irriducibile dello sviluppo capitalistico: la contraddizione tra domanda di senso e di libertà, che vive in modo naturale nei processi di scolarizzazione, e la mercificazione della vita e del lavoro. La questione sociale e le giovani generazioni propongono una lettura unitaria dello sviluppo e della crisi della globalizzazione. La rivolta della gioventù greca e la straordinaria mobilitazione contro la riforma pensionistica della destra francese dicono di quanto l’aggressione ai diritti sociali abbia tratti comuni in gran parte del vecchio continente. La lotta dovrebbe, come ci ha insegnato la pratica dei Social Forum, svolgersi su una scena sovra-nazionale. A cominciare dalla messa in campo di proposte di politica anti-recessiva e anti-ciclica che rappresentino anche una forma di demistificazione della natura reale delle manovre anti-crisi di tanti governi, a partire dal nostro: e nel nostro la neo-teologia di Tremonti cerca di interpretare la crisi come una cabala, come un episodio del Caso o del Kaos, o come un epifenomeno del male, e a fronte del marasma economico finanziario propone un ripristino dall’alto dei valori tradizionali. Insomma, solo “Dio, Patria e famiglia” ci salveranno, e il Tremonti ratzingeriano appare come l’ultimo epidono della saga western di Bush. Noi dobbiamo interrogare la destra e il Paese sulla necessità strategica di un “Piano per il lavoro”, un progetto ambizioso e straordinario di implementazione dell’occupazione puntando sulla promozione della qualità ambientale, a partire dalle bonifiche fino al disinquinamento dei corsi d’acqua, dalla protezione delle coste e delle falde fino alla raccolta differenziata spinta dei rifiuti urbani. E ancora puntando sulle energie alternative e sulla produzione di quei beni immateriali, nella cultura nella comunicazione e nei servizi, che possono consentirci di coniugare ricchezza economica e ricchezza sociale, ricchezza delle quantità e ricchezza delle qualità, incrementi di sviluppo e diffusione del benessere sociale. Ma dobbiamo sapere che la destra vuole usare la crisi economica come alibi per rinviare i conti con il carattere dirimente e ultimativo della crisi ambientale. Qui dobbiamo reagire, ora è il momento di una riconversione culturale che deve investire le forme del produrre, del consumare, del vivere associato. Ora è il momento di andare all’assalto dei veleni che assediano le nostre vite: dalle polveri sottili che abitano anche i polmoni dei nostri bambini al mercurio che nuota nei nostri mari, dall’amianto che continua a uccidere di mesotelioma pleurico fino a quella diossina che la proprio la Puglia, che è la mia terra, ha voluto con una rivoluzionaria legge regionale sottoporre a vincoli seri e scientificamente fondati.
Abbiamo dinanzi diversi passaggi elettorali. Il primo dei quali riguarda la Sardegna, regione nella quale i nostri compagni hanno saputo accompagnare con intelligenza e stimolare in modo creativo l’esperienza innovativa della presidenza Soru: che ha interpretato l’autonomismo sardo come una prospettiva europea e non come ripiegamento e chiusura, e che ha difeso la bellezza e la ricchezza della sua natura e dei suoi delicatissimi eco-sistemi dando una lezione di dignità e di moralità ad un Paese che ha fatto anche del patrimonio dello Stato una S.P.A. Nelle città e nelle province in cui si vota è necessario sviluppare il massimo sforzo unitario della sinistra, di una nuova sinistra capace di guardare anche le radici di una crisi delle grandi città che è anche crisi nei nostri modelli amministrativi. Il riformismo municipale mostra le corde, si tratta di tornare ad avere una lettura critica dello sviluppo cittadino e metropolitano, ma poi si tratta di realizzare un progetto globale di riqualificazione delle periferie e di rigenerazione urbana. Ma nel governo dei territori deve tornare con forza, come sfida della democrazia partecipata e della cittadinanza attiva, la “questione morale”: depurata dalle scorie della giustizia-spettacolo e da quella retorica qualunquista che nella generalizzazione della denuncia finisce per mortificare gli onesti piuttosto che stigmatizzare i corrotti, bonificata da pulsioni da far west, essa vive come rottura della barriera architettonica e sociale che separa, tavolta in modo feroce, i pubblici poteri dalle domande della vita quotidiana. Vive di trasparenza di tutti i procedimenti amministrativi, vive di drastica semplificazione burocratica, vive di circolazione delle informazioni, vive di controllo organizzato sulle decisioni di governo, vive di netta separazione tra politica e affari, vive di responsabilità condivise e di qualità delle classi dirigenti. E poi c’è la consultazione per il rinnovo del Parlamento Europeo: innanzitutto una occasione per fare il punto sul processo di allargamento dell’Unione, per tracciare un bilancio sul ruolo politico dell’Europa nello scacchiere internazionale, ma anche una occasione decisiva per sottolineare gli impegni mancati, le pagine bianche, i peccati di omissione di una Europa incapace di autonomia dagli Stati Uniti e povera di iniziativa politico-diplomatica come si è visto nei giorni della guerra a Gaza. Per noi anche uno stimolo a rinsaldare la presenza dentro “Sinistra europea” e forse la costruzione di una tappa nel processo di avvicinamento alla costituente del nuovo soggetto della sinistra. Che ci sia, in questa contesa, una sinistra unitaria, un pezzo di un cammino assai più lungo e complesso, può essere un fatto nuovo per il popolo della sinistra: naturalmente sappiamo che continua il lavoro bipartisan per introdurre un robusto sbarramento elettorale: serve a compiere il lavoro sporco, è la proiezione di quello sbarramento sociale che vuole marginalizzare le culture critiche e le alternative di società. A condizione che non sia la confezione di un partitino, ma solo un passaggio in una traiettoria di accumulo di forze e di esperienze. A condizione che non appaia, così come fu per l’arcobaleno, un patto di vertice e un manufatto del politicismo dei ceti politici. Serve che tutti e tutte ci facciamo carico, nel dare avvio al movimento per la sinistra, di una domanda di partecipazione diretta alle decisioni della politica, della nostra politica. La democrazia per noi non può essere né apparire una questione procedurale. Proviamo a sfidare noi stessi, a dire che nella rete che stiamo per tessere varrà sempre e comunque il principio di “una testa un voto”, che le primarie possono essere la regola e non l’eccezione della vita interna, che si vota non per finta ma per davvero. E che la democrazia è attraversamento dei territori, radicamento nei territorio, interrelazioni tra territori. Io penso ad una sinistra federale, a cantieri aperti, plurali, curiosi, includenti, che abitino nei territori. Penso ad una sinistra capace di presentarsi come una profezia laica, l’annuncio di tempi nuovi. Obama ha già cambiato il mondo, perché ha introdotto nell’immagine di politica che comunica, la suggestione ontologica del cambiamento, perché nel più ufficiale dei suoi discorsi si è sentito il congedo liberatorio dall’epoca dell’America texana delle sette evangeliche e dei petrolieri, dei gangster della speculazione borsistica e della bolla immobiliare, perché ha nominato la violenza razzista del mondo in cui è nato e cresciuto, perché ha esibito con naturalezza le prerogative di una democrazia che rifiuta qualsiasi torsione confessionale, perché ha delineato un intervento pubblico che mira a salvare l’economia reale piuttosto che la finanza creativa che ha ubriacato il mondo. Insomma, che la politica torni a essere pensiero, conoscenza, inchiesta, passione condivisa, reciproco affidamento, indignazione civile, prefigurazione di un mondo liberato.
Io le cose che ho detto, con sincerità e poca organicità, le ho dette per offrire una spiegazione del mio congedo dal mio partito. Non provo acrimonia verso Ferrero e il suo gruppo dirigente. Sono sereno perché faccio ciò che sento sia giusto fare. Rifondazione è stata la mia casa e questo addio non è un partire indolore. Voglio augurare ogni successo al mio ex partito. E a noi, a quelli di noi che condivideranno la mia scelta, voglio dire che non dobbiamo sentirci avversari di Rifondazione. E soprattutto ai compagni e alle compagne della nostra area che scelgono di continuare la propria lotta dentro al partito voglio esprimere gratitudine: per aver condiviso una bella battaglia, e perché sono certo che continueranno a battersi perché nasca una sinistra nuova. Una sinistra del lavoro e delle libertà. Che ingaggi un molecolare corpo a corpo contro la paura e contro la solitudine. Che ritrovi l’ago e il filo con cui cucire nuovi legami sociali, pezzi di comunità, movimenti che fanno politica coinvolgendo e accogliendo. Una politica che allunga i propri pensieri oltre lo spazio del presente. Una politica che ci aiuti a spartire il dolore e la gioia, che ci rispetti nella nostra fragilità e nella nostra unicità, che non ci trasformi in giudici sommari e in boia delle diversità, che non sia pensata e gestita al maschile, che non accetti barriere gerarchiche, che non escluda chi è diversamente abile, che non giudichi nessuno per la sua fede o per il suo orientamento sessuale, che non cerchi nemici. Una politica gentile, capace di ascoltare l’avversario, forte solo delle proprie idee e non forte di servizi d’ordine, una politica che cerca le persone in carne e ossa piuttosto che cercare il pubblico. Una politica che apre la questione della libertà in ogni millimetro di organizzazione sociale, a partire dal luogo di lavoro. Una politica che annuncia non il nostro primato ideologico ma il nostro amore per la terra e per la vita, che annuncia speranza, che si fa popolo, che ci dà il coraggio di osare una nuova avventura, un nuovo inizio, un altro partire. Auguri a tutti e a tutte.”

venerdì 23 gennaio 2009

Per una Sinistra dal sapore di futuro.

“Parteciperò al seminario di Chianciano perché credo nell’utilità di un nuovo processo fondativo della Sinistra. E’ il cominciamento di un nuovo viaggio iniziatico per quella generazione che, a Genova 2001, aveva ritrovato il desiderio di cambiare il mondo. C’è bisogno della Sinistra per ripensare, all’interno di questa crisi così terribile, il rapporto tra le nostre esistenze, i bisogni, le esperienze, i sentimenti ed il tema della trasformazione, del futuro e del cambiamento. A Chianciano, per la Sinistra, si compirà un ulteriore atto della “rifondazione” ma senza più il Prc, senza il peso dei vecchi feticci e delle antiche mitologie. Nell’odierna ‘società della paura’ c’è bisogno di una Sinistra capace di essere strumento di emancipazione e risorsa politica a servizio della trasformazione. C’è bisogno di un nuovo alfabeto della contaminazione capace di coniugare il tema della pace e della non-violenza, della lotta all’esclusione ed alla precarietà in una ritrovata possibilità di formulazione del tema del conflitto e del cambiamento nel secolo appena cominciato. A Chianciano, insieme a Nichi Vendola, per una Sinistra dal sapore di futuro”.

di Generoso Bruno

Si va... Oltre il Muro.

Se dovessi scegliere una parola capace di descrivere quella sensazione che in Rifondazione Comunista si è instaurata a partire dalla sconfitta elettorale, passando per il Congresso di Chianciano di luglio, userei “Claustrofobia”. Sì, ho scoperto di essere affetto da quella paura patologica degli spazi stretti e chiusi, ma la cosa strana è che non l’ho scoperto in un ascensore, ma nel PRC del post-congresso! Il clima di aria fresca che si respirava nel “lontano” 2003 quando mi sono iscritto per la prima volta a un partito politico, ha lasciato lo spazio a una regressione, a un ritorno al passato, a una difesa sterile dell’identità di partito comunista. All’indomani della sconfitta elettorale dello scorso anno che ha condannato la sinistra italiana a rimanere esclusa dal parlamento, il Prc era davanti a un bivio: ha scelto la strada più semplice..quella del passo indietro..della sicurezza..del recinto. Siamo dentro un recinto..intorno a noi il muro.. Quello stesso muro di Berlino che è stato fonte di polemica nelle ultime settimane e che è stato il simbolo dell’incapacità di reggere il confronto con l’esterno, oggi rappresenta l’emblema di ciò che si avvia ad essere il Prc nei prossimi anni. Ma io che non amo la claustrofobia, voglio provare ad uscire dalle stanze chiuse, lontano dai muri e magari volare verso mète più rischiose, ma con l’obiettivo di creare una forza aperta all’esterno. Lo spazio alla sinistra del Pd è ampio ed è una terra inesplorata che può accogliere una diversità di soggetti, quali movimenti, associazioni, ma soprattutto quel popolo che vorrebbe non solo dire, ma anche fare qualcosa di sinistra. Quel popolo non chiede di fare discorsi sulla falce e martello, né di spiare da qualche fessura del Muro, bensì vuole una forza che è in grado di incidere in un momento storico attraversato da una crisi economica e sociale profonda. Ai compagni che decideranno di rimanere all’interno del PRC dico: ci ritroveremo, forse, in qualche splendido giorno. A tutti gli altri: “Che il viaggio sia buono. Sono certo, lo sarà!”

Roberto Carta – Giovani Comunisti-Circolo PRC- Atripalda

2009-01-22 00 00 05 raitrenotte - intervista vendola 0001

giovedì 22 gennaio 2009

Anch'io vado.

Oltre ai dirigenti del PRC che in queste ore lasciano il partito, lasciano anche i militanti. Tale sono e tale sono stato, nel corso di questi lunghi anni trascorsi a svolgere la delicata e importante opera di organizzazione del circolo PRC di Atripalda. Aiutato e supportato da tanti altri militanti proprio come me, nomi e volti poco noti alla stampa, ma menti, braccia e gambe veloci. Non c'è stato incontro, dibattito, seminario, manifestazione, campagna elettorale e festa di Liberazione, che non abbia visto l'impegno faticoso ed indispensabile dei militanti. Forse anche il modo più gioioso di vivere la politica. Lascio il PRC, perché seguo con la coerenza che mi ha sempre contraddistinto, il progetto politico che Rifondazione aveva iniziato a costruire dal congresso di Venezia del 2005 e che il congresso di Chianciano del 2008 ha bruscamente interrotto. Non resto in un partito che fa della restaurazione ideologica il suo progetto futuro, che ridiscute addirittura il muro di Berlino. La porta oramai è aperta verso la costruzione di una grande Sinistra che riesca a superare le vecchie logiche di partito, che si spalanchi verso la società civile. Un saluto ed un ringraziamento particolare va al compagno Gennaro Imbriano, il segretario militante, per il lavoro svolto tra mille difficoltà, purtroppo spesso interne al partito, buon viaggio a tutte e tutti noi.

Fernando Bonazzi - militante circolo PRC di Atripalda.

Vendola: "Ricostruire una grande sinistra del futuro".

"Ho deciso di lasciare il partito della Rifondazione Comunista. Lo considero una casa snaturata e per questo mi dedicherò a ricostruire una sinistra curiosa del mondo che cambia, all’altezza delle sfide del tempo presente, fatta di sentimenti buoni, di capacità di stare nella realtà, di conoscere i territori e i luoghi di lavoro.
Parlo per me, per il mio sentire, per la mia idea di politica. Non chiedo quindi un reclutamento, una leva militare. Ognuno e ognuna farà i conti con la propria coscienza. Lo spirito che mi muove non vuole determinare rotture ma contaminazioni virtuose: è tempo di elaborare un pensiero forte, di fronte a un mondo attraversato dalla crisi economica e dalla crisi ambientale, per presentarci non come portatori di vecchie mitologie ma come ricercatori di futuro. Dalla settimana prossima il mio cervello e il mio cuore, insieme a quelli di tante e di tanti, avrà solo un assillo: ricostruire per l’Italia e per l’Europa una grande sinistra di popolo, una grande sinistra per il futuro".


22 gennaio 2009 Nichi Vendola

Nichi Vendola a

mercoledì 21 gennaio 2009

Criscuoli: Passo?....No, rilancio.

Siamo arrivati all'addio, un addio che era nell'aria, nell'aria che respiravo nel Partito della Rifondazione Comunista, il partito di cui ero Segretario cittadino, segretario di un collettivo conosciuto e riconosciuto , non solo per quello che rappresentava ma per quello che ha fatto e realizzato fin dalla sua costituzione.
Parlare di addio dovrebbe in ogni caso suscitare dubbi ed amarezza in chi lascia ma anche in chi viene lasciato. Ma in questo caso, nel mio caso, non c'è spazio per queste sensazioni, sono altri i pensieri e le emozioni che mi percorrono.
C'è una forte delusione e la consapevolezza che per la prima volta non sono stato in grado di comprendere con sufficiente anticipo ciò che oggi si sta rivelando in tutta la sua traumatica portata, o forse l'avevo capito senza volerlo ammettere. Ammettere che il PRC non era più il partito che avevo conosciuto, supportato, difeso. Ammettere che in fondo non c'erano più compagni di viaggio con cui condividere un progetto politico alto e futuribile, compagni che improvvisamente (ed inspiegabilmente) in un preciso momento storico si sono trasformati in acerrimi nemici e con i quali ormai l'unico mezzo di comunicazione era diventato lo scontro, l'offesa, la delegittimazione.
Ovviamente questa situazione era ed è più evidente sul piano provinciale e nazionale, non certo ad Atripalda dove abitano ancora onestà , rispetto e coerenza.
Ciò che sta accadendo in queste ore in cui trionfano l'idea di un partito identitario e settario e la confusione che pervade molti compagni della provincia mi porta alla conclusione che lasciare oggi il PRC non è altro che una profonda dimostrazione di coerenza rispetto ad un progetto politico che aveva fatto dell'inclusione e dell'apertura le sue migliori prerogative.
Ma dopo il Congresso Nazionale di Chianciano tenutosi la scorsa estate la sterzata reazionaria della nuova e risicatissima (ed illeggittima direi) maggioranza non ha lasciato fiato a chi conosceva un partito diverso e a chi immaginava un percorso che portasse ad un nuovo soggetto di sinistra moderno ed al passo con i tempi. Un soggetto che fosse in controtendenza con la spinte separatiste e minoritarie, con la frammentazione che da anni investe il campo politico della sinistra italiana.
Difficile condensare in poche righe ciò che invece si vorrebbe dire per spiegare in modo esaustivo i processi in atto in quel che fu il mio Partito, e quelli che stanno caratterizzando i “movimenti” di queste ore soprattutto in questa provincia dove di qui a poco ritorneranno personaggi mummificati che come avvoltoi si apprestano a rientrare dalla porta principale.
Ed allora ecco che ci ritroveremo a dover fare i conti anche con i “convertiti” dell'ultima ora come l'Assessore Corrado Gabriele ed il suo fedelissimo Todino (che un giorno ci spiegherà il suo comportamento) per i quali contano solo i numeri e le candidature non certo le idee ed il rispetto dei compagni che quelle idee le hanno incarnate e portate avanti con non pochi sacrifici credendo nell'onesta e nella coerenza della propria area politica.
Agli altri compagni che nella confusione attuale hanno preferito aggrapparsi alla boa auguro di non dover sopportare per troppo tempo la barbarie e l'intolleranza che negli ultimi periodi avevano caratterizzato il confronto interno, auguro loro di non dover subire lo stesso trattamento epurativo compiuto ai danni di Sansonetti e dei giornalisti di Liberazione, auguro di non dover essere costretti a subire la violenza che troppo spesso si è rovesciata su compagni onesti ed incapaci di rispondere a simili atteggiamenti.
Ma l'augurio più sentito lo rivolgo a Gennaro Imbriano , al politico, all'amico e compagno di tante battaglie giuste e condivise e le cui capacità si stavano progressivamente mortificando nonostante gli sforzi e l'impegno profuso per rendere il PRC in questa provincia un luogo di confronto aperto in cui innovazione e sguardo attento sulla società in crisi fossero la linea d'orizzonte di un partito che fino ad oggi aveva avuto il merito di aprire squarci nell'opinione pubblica, non solo di sinistra, su temi impronunciabili e irricevibili come i diritti civili.
Sono certo che la storia ed il tempo faranno chiarezza , quindi non mi resta che congedarmi dal Partito della Rifondazione Comunista , senza far rumore, senza indignazione, senza rimpianti e senza rancore ma con la consapevolezza che le idee sopravvivono agli uomini e alle loro miserie.


Luca Criscuoli - Segretario Circolo “L. Libertini” Atripalda

Sinistra: E' il momento per ricominciare.

Care compagne e cari compagni,
quando ho letto l’ultima copia di Liberazione con direttore Sansonetti, ho provato una profonda emozione e poi per tutto il giorno ero triste e la sera sono andata a letto con un senso di morte dentro.
Quando avevo 16 anni vivevo a Trapani ed ero di Lotta continua e lo ero soprattutto perché amavo la libertà. Avevo studiato Marx ed Hengels, ma non ero un ‘esperta di politica. Però sapevo con certezza che lottavo contro la società patriarcale (lotta immane a quei tempi), avevo chiaro che le donne e gli uomini devono avere gli stessi diritti e che tutte le persone devono avere gli stessi diritti e che non ci devono essere sfruttatori e sfruttati.
In occasione dell’invasione della Cecoslovacchia da parte dell’Unione Sovietica, Lotta Continua aveva suscitato un grande dibattito con il Pci che appoggiava l’Unione Sovietica. Votavo per il Manifesto proprio perché era un partito che aveva preso le distanze dal totalitarismo. Amavo le libertà e la amo ancora.
Dal 1991 il Prc è il mio partito ma sono iscritta solo da quattro anni e devo dire che questo partito mi ha fatto stare bene perché mi ha fatto sentire che non ero sola a lottare. Per me il partito è molto importante perché senza questa lotta, la mia vita non avrebbe senso.
Ma questo partito a cui abbiamo dato tanto e che ci ha dato tanto, purtroppo non esiste più.
Il partito libertario e che aveva un forte legame con i grandi movimenti di massa, quelli che andavano oltre il movimento operaio, come il movimento no global, il partito dell’innovazione culturale ed eversiva, il partito che riconosce gli errori e gli orrori del comunismo stalinista, il partito non violento, il partito che lotta per i diritti delle donne e dei gay non c’è più.
E’ un partito come ha detto la compagna Giavazzi che non ha futuro perché il partito adesso ha scelto la strada della restaurazione ortodossa, che rende impossibile la convivenza e la condivisione. Ne abbiamo avuto un esempio ad Avellino con l’insopportabile intrusione di Ferrero in affari che riguardano soltanto la federazione di Avellino.
Ormai questo è diventato il partito dell’odio. Ormai non si fa più politica, ci si scambia soltanto invettive e noi non abbiamo bisogno di questo, ma dobbiamo invece cambiare lo stato delle cose presenti. Io sto elaborando il lutto e ho voglia di vita nuova e costruttiva. E sono d’accordo con Nicky quando dice:” E siccome non dobbiamo passare il resto della vita a maledirci, allora meglio ricostruire qualcosa partendo da ciò che ci divide”. "L'utopia è come l'araba fenice, rinasce dalle proprie ceneri”. Si muore, ma si rinasce.
Nell’universo conosciuto tutto è costituito da cicli. Ogni cosa in natura segue un andamento ciclico.
In un terreno incolto, noteremo la rigogliosità della natura, noteremo anche piante e alberi morti, secchi, caduti, altri in putrefazione. Ma se andiamo a vedere nel dettaglio cosa c’è vicino, dentro, sotto, noteremo dell’altra vita che sta per nascere: piccole erbe, formiche che scavano il legno, germogli, altri insetti che freneticamente si muovono.
In ogni cosa che finisce c’è l’inizio di qualcos’altro. Dove c’è la nascita c’è anche la morte, e la vita include tutto questo. La vita in qualche modo è eterna, perché è il ciclo della nascita e della morte, tutti i cicli compongono ed appartengono alla vita.
Il partito muore e rinasce e dipende da noi che forma vogliamo dare a questa nuova vita. Se noi ci crediamo e ci impegnamo convinti potremmo dare una forma veramente bella a questa nuova vita. Potremmo organizzare il partito della sinistra.
Perché abbiamo dato vita alla mozione “manifesto per Rifondazione”? Perché abbiamo sempre pensato che l’arretramento progettato dalle altre mozioni fosse distruttivo per la sinistra. E allora, adesso mi rivolgo ai compagni che vogliono restare e gli chiedo: avete cambiato idea oppure pensate di poter cambiare il partito da dentro? Fino ad adesso non siamo riusciti a muovere un passo dentro a questo partito, come pensate di poterlo muovere in futuro? Il compagno Nando ha ipotizzato che Ferrero fra dieci giorni cadrà. Io penso che sia più facile vedere l’asino che vola anziché Ferrero cadere. Ferrero è molto determinato, è uno legatissimo al potere, non lo mollerà mai per il bene del partito. Non ho capito se aveva deciso a tavolino di cacciarci o se questa è la conseguenza del suo modo rigido di vedere le cose, un tentativo disperato di salvare il comunismo che già non esiste più.
Anche il partito non esiste più e tentare di salvarlo credo che sia un accanimento terapeutico. Credo che sia inutile salvare un morto e meglio rivolgersi alla vita invece.
Compagni dobbiamo credere nella strada intrapresa. Non ha senso che a metà strada ci fermiamo. La sinistra ha bisogno di tutti noi insieme. Dobbiamo andare fino in fondo. Adesso nel partito ce la tendenza di convincere i compagni della nostra area a restare come è successo a Corrado Gabriele, che si dice gli abbiano offerto una candidatura per le europee, ma noi che non occupiamo nessuna poltrona, perché dovremmo restare, per farci distruggere da Ferrero? Io, anche se occupassi una poltrona me ne andrei. E Ferrero dice che siamo quattro gatti che non concluderemo niente. Compagni fate come Ulisse, non date ascolto al richiamo delle sirene. Queste sono sirene che combattono contro il nostro progetto. Sono sirene ingannatrici. E’ un tentativo di corruzione. Vogliono che restiamo ma non vogliono cambiare niente. Vogliono dividerci per renderci impotenti. Quando sento dire che siamo divisi mi viene rabbia perché a Chianciano loro erano divisi e noi molto uniti. Non cadiamo nelle trappole! Dice Ferrero che non vogliamo adeguarci alla democrazia e secondo lui la maggioranza relativa cioè il 48% dovrebbe eseguire gli ordini di una maggioranza raffazzonata e composta da piccole minoranze nostalgiche e oscurantiste. Ferrero ha inoltre dichiarato al telegiornale che sono pochissimi i compagni che vogliono uscire e che faremo un partitino inutile. Facciamo in modo che questo non sia vero. Sempre nel tg3 ha dichiarato che Sansonetti è praticamente un nemico del popolo e questo mi ricorda un periodo veramente oscuro.
Noi, compagni che ci crediamo davvero, cosa abbiamo da perdere? Come diceva Marx abbiamo da perdere solo le nostre catene. Si perché nel partito siamo incatenati, non possiamo muovere un passo malfermo. Per esempio adesso ad Avellino e in provincia non avremo il permesso di presentarci alle elezioni con il simbolo di Rifondazione – non possiamo decidere le alleanze che vogliamo fare perché siamo controllati e corretti come in URSS.
Diamo forza al nostro progetto anziché a quello di Ferrero. Se usciamo solo in pochi dal partito sarà più difficile e invece la presenza di tutti noi dell’area “Per la sinistra”, ci da una grande forza. Vi prego non indebolite il nostro progetto. Perché rimanere in una struttura in cui non credete più? Non ha senso, quando noi ce ne andremo sarete veramente una minoranza inconsistente e sarete trattati malissimo se non vi adeguate. Il nuovo partito della sinistra ha bisogno di unità e militanza, molta militanza. Non dobbiamo deprimerci perché viviamo nel regime berlusconiano. Invece di deprimerci è da lì che dobbiamo prendere la forza per ribellarci. Nella vita ci vuole coraggio: “Si dice che chi non risica, non rosica”.
Si dice che volere è potere. Se noi diamo energia al nostro progetto, avremo successo. Fate finta che prima non c’era niente e adesso ci mettiamo all’opera per realizzare il nostro bellissimo progetto. Certamente incontremo delle difficoltà, ma non bisogna fermarsi mai e dobbiamo sempre ricordarci di Gramsci quando diceva che quando va male, allora bisogna ricominciare. A che serve dire siamo finiti. Allora chiedo a questi compagni. Che dobbiamo fare chiudiamo bottega e ce ne andiamo tutti a casa? Io voglio che la lotta sia sempre viva e lotterò, lotterò nel nuovo partito della sinistra.
Dobbiamo creare un partito in cui si dialoga, un partito che vive nel tempo attuale, un partito che continui la strada della nostra rifondazione. Abbiamo bisogno di una grande sinistra, ma non solo in Italia, ma anche in Europa e nel mondo. Abbiamo bisogno di questo per fermare la strage degli innocenti in Palestina. La morte dei bambini è la cosa più terribile che esista al mondo per me.
Vedendo Fabrizio De Andrè, gli ho sentito dire che lui quando era ragazzo e andava a scuola fra i troiani e gli achei vincitori, si identificava con i troiani e mi sono ricordata che anche io mi identificavo con i troiani e adesso mi identifico con i palestinesi. Abbiamo bisogno di coesione nella sinistra per difendere i diritti dei più deboli.
Condivido le preoccupazioni di Sansonetti per il futuro della sinistra, ma se ci impegnamo, ce la faremo, ma dobbiamo impegnarci molto. E’ importante per i nostri figli, per l’Italia per il mondo.
ADESSO! E’ IL MOMENTO PER COMINCIARE. COMINCIAMO DA QUI e spero che in tutta l’Europa la sinistra rinasca. Perché solo la sinistra ha gli strumenti per risolvere la crisi.

di Giuseppina Buscaino

martedì 20 gennaio 2009

La Costituente di una nuova sinistra dopo la fine del ciclo della controriforma.

Editoriale di Fausto Bertinotti in uscita sul numero 8 di "Alternative per il socialismo".



Stiamo vivendo un tempo breve infarcito di fatti politici, economici e sociali di ogni tipo e tutti, a loro modo, in tutto, o almeno in parte, imprevisti; alcuni inediti e tanti di rottura con il ciclo lungo in cui siamo vissuti fin qui. Questo tempo breve in cui siamo immersi parla oramai di un mutamento di fondo dell’intero ciclo politico-sociale di cui segna la fine.

I diversi accadimenti (di cui il più rilevante è certamente la crisi che ha investito il capitalismo finanziario globalizzato che, a partire dagli Stati Uniti d’America, coinvolge il mondo intero e che, a partire dalla finanza, scuote l’economia reale) colpiscono i fondamentali di un ciclo economico durato un quarto di secolo.


LA FINE DEI “TRENTA INGLORIOSI”

Il mondo vive le doglie di un nuovo ciclo di cui è impossibile prevedere gli assetti di civiltà e di potere. Proprio gli assetti di civiltà, di potere tra le classi, di produzione e di distribuzione della ricchezza, di qualità (di sostenibilità sociale ed ecologica), dell’organizzazione economica e sociale, di accesso ai diritti costituiscono infatti la linea di clivage che separa un’uscita dalla crisi in una direzione piuttosto che in un’altra, il clivage tra destra e sinistra. Quel che è certo è che si è concluso il secondo ciclo lungo prodottosi nella storia apertasi con la vittoria contro il nazifascismo, un ciclo durato dall’80 ai nostri giorni. Un tempo sterminato politicamente, ma comunque assai prolungato oggettivamente, più di quanto si tenda solitamente a considerare. Basti riflettere, per l’Italia, sul fatto che si è trattato di un tempo più lungo di quel che ha separato il tempo della Resistenza, della lotta partigiana, da quello dell’esplosione operaia e studentesca del biennio rosso del ’68-’69. Un ciclo lungo sostanzialmente quanto quello che lo ha preceduto, che è andato dagli anni ’50 all’80. Se quelli sono stati chiamati i 30 gloriosi, potremmo chiamare questi i 30 anni ingloriosi. (…)
Il primo ciclo lungo è stato chiamato del “compromesso democratico” (o socialdemocratico), ed ha avuto nell’Europa la sua manifestazione più organica, dove ha preso la forma e la sostanza dello stato sociale e del riconoscimento dei diritti dei lavoratori. E’ stato il ciclo lungo influenzato dal conflitto di classe e dal protagonismo dei lavoratori che ha imposto all’economia capitalista il compromesso sociale e, nella sfera della politica, la grande questione della riforma sociale. Tutto ciò è ben noto ma, invece, si è riflettuto troppo poco sulla sua causazione ideale. Sull’ideologia che ha fatto da lievito al ciclo lungo della riforma (seppure incompiuta e mutilata). Essa ha preso la forma delle costituzioni democratiche a cui hanno dato vita in Europa i processi costituenti seguiti alla vittoria contro i fascismi. Non può sfuggire la loro dichiarata discontinuità con la tradizione delle costituzioni liberali. L’eredità, pur rilevante, della “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789”, viene allora superata con la volontà di immettere nelle costituzioni ciò che prima non c’era mai stato: la democrazia sociale. La democrazia doveva dunque essere aggettivata per avere un senso. Il cambiamento segnerà un’epoca. L’essenza delle democrazie viene individuata nell’uguaglianza. La lotta alla disuguaglianza diventa il principale obiettivo programmatico di una Costituzione che fa del lavoro (non dell’impresa o della proprietà) il fondamento della Repubblica. I rischi dell’esistenza non sono più affidati al mercato. La democrazia progressiva (o integrale) non è, come viene sostenuto infondatamente, l’ideologia di una sola parte (dei comunisti e dei socialisti), bensì l’ideologia condivisa che viene messa a base della Costituzione. Il mondo diviso in blocchi contrapposti e la reazione di classe metteranno poi in discussione questa conquista culturale che diventerà soprattutto, da lì in avanti, il terreno della lotta politica nel paese, ma essa continuerà a lavorare nella formazione del senso comune, tanto che non è possibile pensare la costruzione dello stato sociale e la conquista dei diritti dei lavoratori senza quei fondamenti ideologici che sono, insieme a quelli delle costituzioni democratiche, la causazione ideale dei 30 gloriosi. La presenza dello Stato nell’economia e la partecipazione dei lavoratori alla vita pubblica si venivano infatti configurando, insieme al ruolo riconosciuto ai partiti di massa e ai sindacati, come la strumentazione con la quale condurre la lotta alla disuguaglianza.
Il caso italiano costituirà la massima espansione di questo modello sociale nel pieno sviluppo del ciclo fordista-taylorista. Il ’68-’69 ne segnerà l’oltrepassamento nell’incontro con l’onda della contestazione che attraverserà il mondo riaprendo la questione della trasformazione, della rottura e declinando il tema dell’uguaglianza con l’ambizioso linguaggio dell’egualitarismo. Se si estrae così il nucleo duro dai 30 gloriosi si ha per intero, in tutta la sua drammaticità, il rovesciamento operato nel ciclo lungo che ne è seguito. Non una modernizzazione, da un lato, e una rivincita di classe, dall’altro. Ma la fondazione di un diverso assetto della società su nuove basi a partire dal rovesciamento del paradigma centrale: il lavoro, da fondamento della repubblica nella lotta alla disuguaglianza, diventa la variabile dipendente del nuovo sovrano, la competitività del mercato. La globalizzazione si impone come rivoluzione capitalistica restauratrice, proprio così, e cambia il quadro intero.


... Segue nel primo post...

domenica 18 gennaio 2009

Un'altra Sinistra è possibile.

Non si può essere in movimento restando fermi, questa è oramai la condizione dell'area rifondazione per la sinistra, che dopo il congresso del PRC di Chianciano ha visto capovolgere l'esito dello stesso allorché le minoranze all'interno del partito si sono accordate affinchè la nostra mozione, che vede primo firmatario Nichi Vendola, nonostante avesse raggiunto oltre il 48 % dei voti congressuali divenisse di fatto minoranza, dando vita ad una vera restaurazione del PRC distruggendo un patrimonio politico costruito negli ultimi 10 anni. Di fatto l'agibilità politica all'interno del partito in questi ultimi mesi è praticamente scomparsa, anche laddovè come ad Avellino la mozione aveva ricevuto oltre il 60% dei consensi. Un vero e proprio mobbing è stato perpetuato nella federazione provinciale a danno dei compagni che avevano aderito all'area, impedendo con ogni modo, alcuni veramente discutibili come lo screditamento personale di alcuni compagni, allo svolgimento dei lavori della segreteria e del CPP. Questa purtroppo risulta essere la condizione del PRC anche a livello nazionale. La cacciata di Piero Sansonetti, direttore di liberazione, è solo uno degli ultimi esempi di come il partito anche nella pratica ha messo in atto una persecuzione verso coloro che non “rispettano”la linea politica e i dictat del segretario Ferrero. Non ci resta che andare..questa sembra essere la soluzione finale a quello che sta succedendo in Rifondazione, ha ragione Fausto Bertinotti quando dice: è diventato un partito irriconoscibile. Sarebbe in qualche modo “più comodo” restare ad Avellino dove l'area appunto detiene la maggioranza assoluta, ma per restare bisogna avere un progetto convincente che apra la porta al futuro, ebbene la segreteria Ferrero questa porta l'ha chiusa ed allora chi come me ritiene il progetto della mozione Vendola non solo attuale ma necessario deve spalancare un portone per la costruzione di un grande partito di sinistra che guardi al mondo e al futuro senza rimpianti e senza remore, che sia in grado di essere al passo con la società e che sopratutto aspiri alla rivoluzione umana di cui tanto si ha bisogno. Lascio il PRC solo con il rammarico che il mio partito non esiste più, perlomeno non la rifondazione a cui ho aderito con convinzione a partire da Genova 2001, ma continuo il sogno di un altro mondo possibile, di un'altra sinistra possibile.

di Cinzia Spiniello - coordinatrice provinciale dell'area “Rifondazione per la Sinistra”

Una nuova Sinistra è possibile.

di Pompilio Albanese (Segreteria provinciale Prc-Se di Avellino)

Il dibattito che investe il Partito della Rifondazione Comunista, trova
tutte le risposte nella scissione, per colpa della posizione dell'attuale
maggioranza che esprime una linea politica senza tenere conto delle
dinamiche sociali intervenute dal congresso di Chianciano a oggi.

Ho sostenuto la mozione 'Rifondazione per la Sinistra'nel congresso di
Chianciano e sono tutt'ora convinto che le motivazioni essenziali di quella
battaglia politica siano valide più di prima. Lo confermano innanzitutto la
crisi della globalizzazione mondiale, l'enorme movimento dell'onda per
difendere la scuola pubblica, la capacità della CGIL di portare in piazza
migliaia di manifestanti come lo sciopero generale del 12 dicembre.

Allo stesso tempo non si può ignorare il fallimento del progetto riformista
del Partito Democratico

che combatte al suo interno una battaglia sulla questione morale.

Il nostro partito invece di prendere atto delle modifiche sostanziali della
società ,dei movimenti,dei diritti del lavoro, riafferma la propria linea,
quella settaria e minoritaria, come si nota nello smantellamento di tutti
quegli elementi d'innovazione che hanno fatto di Rifondazione un punto di
riferimento per intere generazioni. La costruzione di un nuovo soggetto
politico unitario e plurale della sinistra è necessaria :per i luoghi di
lavoro,per i territori,per i bisogni,per i movimenti sociali, che in questi
anni sono rimasti senza rappresentanza politica. Bisogna costruire con tutti
i mezzi, un'opposizione alle destre di Berlusconi e Bossi che tenga conto
della realtà delle cose. Bisogna costruire una speranza che va in una
direzione diametralmente opposta all'attuale governo, più umana, più
consapevole dei propri mezzi, più equa.

Questo compito non lo possono assolvere solo i comunisti di rifondazione
comunista, per diverse ragioni: uno- per un numero esiguo degli iscritti al
partito, due- per la cultura del sospetto che ha caratterizzato il nostro
comportamento, tre- il nuovo modello di vita inventato dalle destre e dal
capitalismo, quattro- il nuovo rapporto con l'ambiente. La scissione è
necessaria in provincia di Avellino, dove il gruppo della maggioranza che fa
capo al compagno Vendola, è scientificamente attaccato da ogni parte.
Sembrava un episodio isolato, l'intervento di Don Vitaliano, invece
l'ingerenza non autorizzata del segretario nazionale, Ferrero, è un chiaro
messaggio di delegittimazione del gruppo dirigente della federazione Irpina
. Il modo di fare politica del segretario nazionale del PRC serve
soprattutto a riaffermare una politica in provincia che è stata sconfitta
con il congresso di Mercogliano nel 2005. Una politica che metteva il
partito nelle condizioni di esprimere una gestione politicista, centralista
e giustizialista.

Mi chiedo come si può restare in un partito che pur di recuperare vecchie
cariatidi, mette in discussione tutto quello che di buono è stato fatto in
questi anni da tutti noi. Come si può restare in un partito che guarda al
passato. Io credo in un'altra sinistra e in un'altra politica. Credo che
un'altra politica sia possibile e un'altra sinistra è necessaria!

"Noi siamo un partito non un restato"

giovedì 15 gennaio 2009

A sinistra.

Gaza, due ore all'inferno.

di Luisa Morgantini * IL MANIFESTO 14 GENNAIO 2009

Poco più di due ore ma sono bastate per vedere la distruzione e la desolazione della gente di Gaza. Con 8 parlamentari europei e un senatore del Pd, siamo stati gli unici rappresentanti politici ad essere entrati nella Striscia da quando è iniziato l'attacco israeliano.
Siamo entrati attraverso il valico di Rafah grazie alla indispensabile collaborazione dell'Unrwa e delle autorità egiziane e forzando la volontà di quelle israeliane che hanno respinto la nostra richiesta. Colpi di cannone e bombe sono cadute vicino la sede dell'Onu in cui ci trovavamo, malgrado ci fosse una tregua di tre ore. Non rispettata. CONTINUA|PAGINA12
Così come la risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, respinto da Israele e da Hamas.
«Tutti e due si dichiareranno vincitori ma siamo noi a morire»: è un uomo accasciato nel centro di raccolta degli sfollati dell'Onu, che ci parla. Responsabilità di Hamas, ma l'asimmetria, è innegabile. Israele continua da più di 40 anni ad occupare e colonizzare terra e popolo palestinese, con la forza militare e la violazione del diritto umanitario e internazionale: a Rafah ho visto esseri umani logorati dal terrore sfiniti dall'insonnia per due settimane di duri bombardamenti, di ricerche disperate di cadaveri tra le macerie e una fame antica quanto l'embargo che anche prima dell'operazione «Piombo fuso» soffocava e costringeva in una punizione collettiva i civili di Gaza. Sono attaccati dal cielo, dalla terra, dal mare, nessuno e niente può dirsi al sicuro.
Ed è la prima volta che persone bombardate non hanno dove fuggire, le frontiere sono chiuse, aspettano di morire. È ciò che mi ha detto Raed: «Ogni volta prima di cercare di dormire, bacio mia moglie sperando di ritrovarla il giorno dopo e di non morire sotto le bombe». Orrore e impunità: la scuola dell'Unrwa di Jabalia è stata centrata in pieno da un missile da dove non sparavano i miliziani di Hamas e lì sono morti 45 civili. Gli obitori sono stracolmi di cadaveri come le corsie di feriti con ustioni gravi provocate dal fosforo bianco e dalle armi Dime (sperimentali), usate in Libano - l'ammissione è di parte israeliana. Un medico ci dice che i malati cronici non vengono più curati: non ci sono medicine. A Gaza le madri assiepate a decine con i loro bambini in una piccola stanza ci guardavano disperate, con gli occhi persi nel vuoto, ci mostravano i figli ancora feriti e ci chiedevano «Perché?». L'Unrwa denuncia la mancanza di beni base necessari.
Israele non permette il flusso necessario di aiuti. Ma nulla e nessuno è al riparo dalla scelta di Israele di continuare nell'illegalità. Mentre si bombarda Gaza aumentano i coloni illegali in Cisgiordania e cresce il Muro che confisca terre e divide palestinesi da palestinesi. Continuare a tenere viva la speranza per il diritto ad uno Stato, sui confini del '67 con Gerusalemme capitale condivisa, è sempre più difficile. Come far assumere alla Comunità Internazionale le proprie responsabilità? Come far cessar il fuoco subito? Come convincere Israele che non può continuare a violare la legalità internazionale ma che deve iniziare ad ascoltare al suo interno le voci che chiedono pace, diritti e dignità per il popolo palestinese, unica via per la propria sicurezza? L'Unione Europea deve avere il coraggio e la coerenza di fermare il potenziamento delle relazioni e cooperazione con Israele, sopratutto quella militare.
Noi parlamentari europei lo chiederemo ancora una volta, insieme al cessate il fuoco da tutte e due le parti e a forze internazionali per proteggere i civili non solo a Gaza ma anche in Cisgiordania. E mi auguro che in Italia i movimenti sappiano capire che essere uniti è importante e che non si è per Israele o per la Palestina, ma per il diritto e la giustizia. Io continuo a stare con quei palestinesi ed israeliani che dicono «ci rifiutiamo di essere nemici - fermate il massacro - basta con l'occupazione».


*Vice Presidente del Parlamento Europeo

Vendola: Fuori dalla gabbia dei veleni.

L'INTERVISTA / Vendola: "Mi hanno fatto soffrire da comunista
i risentimenti e le menzogne della vicenda Liberazione"
"Siamo finiti in una gabbia di veleni
cambiamo casa per rifondare la sinistra"

di CARMELO LOPAPA - la Repubblica

"Siamo finiti in una gabbia di veleni cambiamo casa per rifondare la sinistra"



Nichi Vendola
ROMA - "È giunto il momento di mettere ordine, di riscrivere lo spartito della sinistra del futuro. Le miserie umane e culturali alle quali abbiamo assistito ci hanno indotto a questo passo, quello della rifondazione della sinistra. Questa non era più casa nostra".

Nichi Vendola, governatore della Puglia, perché non sarebbe più casa vostra? Perché abbandonate il partito?
"Una storia si è ormai compiuta, finita dentro una prigione di risentimenti. È stata scritta una pagina brutta, siamo finiti tutti in una spirale ritorsiva. Quella non è più casa nostra perché è poco accogliente, è un luogo che ha chiuso i conti con la parola "rifondazione". Il Prc per 18 anni è stato protagonista vivace, efficace, controverso, fascinoso e vero della politica italiana. Quella storia, ecco, si è illividita, sfarinata".

Vi accusano di non esservi arresi al fatto di aver perso il congresso.
"Non dico queste cose perché ho perso il congresso, che pure in qualche modo ho vinto col 47%, ma perché col vulnus inferto a Liberazione, al diritto di informazione e all'autonomia del giornalismo, non c'è stata solo la presa d'atto di una divaricazione politica, ma qualcosa di più profondo. E siccome non dobbiamo passare il resto della vita a maledirci, allora meglio ricostruire qualcosa partendo da ciò che ci divide. Ho sofferto tanto per quanto accaduto, da giornalista e da comunista".

Con il Prc dite addio una volta per tutte anche all'utopia comunista?
"L'utopia è come l'araba fenice, rinasce dalle proprie ceneri. E l'utopia dell'eguaglianza non è riducibile alle conseguenze di alcun fallimento, continuerà a camminare lungo le strade della politica".
E la vostra strada porta alla costruzione con Fava, Mussi, pezzi dei verdi, di un nuovo soggetto. Ma c'è bisogno di un'altra bandierina a sinistra? Di un piccolo Arcobaleno?
"Si può continuare la battaglia dentro e fuori il Prc, si può anche avere la doppia tessera. Niente ingessature. Ma dobbiamo prendere atto che ci è cascato il mondo addosso. L'Italia che fu il paese dell'anomalia comunista è oggi diventato il paese in cui l'anomalia è rappresentata dall'assenza di una forte sinistra politica. Antirazzismo, la cura per le persone più deboli, dell'ambiente: la parola sinistra deve tornare ad avere senso. Rifondazione e il Pd rischiano di essere la narrazione dello stesso suicidio. Da un lato, la ricerca affannosa di governismo a tutti i costi, dall'altro, la predicazione velleitaria lontana dalla realtà".

Si dice che Bertinotti abbia benedetto lo strappo.
"Con Fausto facciamo lunghe chiacchierate. Parlare con lui per me è respirare aria pulita, ossigenare il cervello. Condividiamo la fiducia nel fatto che la sinistra sia un'istanza oggettiva".

Presidente Vendola, confessi, quanto male le hanno fatto le parole dello psichiatra Fagioli sull'incompatibilità tra l'essere comunista, gay e cattolico?
"Non mi hanno scalfito per nulla, piuttosto ho notato che spesso una certa veemenza viscerale ha degli effetti antipatici sul viso di chi la esprime. Detto questo, non bisogna necessariamente essere comunisti e neppure avere confidenza con la società dei lumi per non simpatizzare con chiunque giudichi le altre persone, non per i loro comportamenti, ma per la loro condizione esistenziale. Sono cose che a me danno ricordi da brivido".