Editoriale di Fausto Bertinotti in uscita sul numero 8 di "Alternative per il socialismo".
Stiamo vivendo un tempo breve infarcito di fatti politici, economici e sociali di ogni tipo e tutti, a loro modo, in tutto, o almeno in parte, imprevisti; alcuni inediti e tanti di rottura con il ciclo lungo in cui siamo vissuti fin qui. Questo tempo breve in cui siamo immersi parla oramai di un mutamento di fondo dell’intero ciclo politico-sociale di cui segna la fine.
I diversi accadimenti (di cui il più rilevante è certamente la crisi che ha investito il capitalismo finanziario globalizzato che, a partire dagli Stati Uniti d’America, coinvolge il mondo intero e che, a partire dalla finanza, scuote l’economia reale) colpiscono i fondamentali di un ciclo economico durato un quarto di secolo.
LA FINE DEI “TRENTA INGLORIOSI”
Il mondo vive le doglie di un nuovo ciclo di cui è impossibile prevedere gli assetti di civiltà e di potere. Proprio gli assetti di civiltà, di potere tra le classi, di produzione e di distribuzione della ricchezza, di qualità (di sostenibilità sociale ed ecologica), dell’organizzazione economica e sociale, di accesso ai diritti costituiscono infatti la linea di clivage che separa un’uscita dalla crisi in una direzione piuttosto che in un’altra, il clivage tra destra e sinistra. Quel che è certo è che si è concluso il secondo ciclo lungo prodottosi nella storia apertasi con la vittoria contro il nazifascismo, un ciclo durato dall’80 ai nostri giorni. Un tempo sterminato politicamente, ma comunque assai prolungato oggettivamente, più di quanto si tenda solitamente a considerare. Basti riflettere, per l’Italia, sul fatto che si è trattato di un tempo più lungo di quel che ha separato il tempo della Resistenza, della lotta partigiana, da quello dell’esplosione operaia e studentesca del biennio rosso del ’68-’69. Un ciclo lungo sostanzialmente quanto quello che lo ha preceduto, che è andato dagli anni ’50 all’80. Se quelli sono stati chiamati i 30 gloriosi, potremmo chiamare questi i 30 anni ingloriosi. (…)
Il primo ciclo lungo è stato chiamato del “compromesso democratico” (o socialdemocratico), ed ha avuto nell’Europa la sua manifestazione più organica, dove ha preso la forma e la sostanza dello stato sociale e del riconoscimento dei diritti dei lavoratori. E’ stato il ciclo lungo influenzato dal conflitto di classe e dal protagonismo dei lavoratori che ha imposto all’economia capitalista il compromesso sociale e, nella sfera della politica, la grande questione della riforma sociale. Tutto ciò è ben noto ma, invece, si è riflettuto troppo poco sulla sua causazione ideale. Sull’ideologia che ha fatto da lievito al ciclo lungo della riforma (seppure incompiuta e mutilata). Essa ha preso la forma delle costituzioni democratiche a cui hanno dato vita in Europa i processi costituenti seguiti alla vittoria contro i fascismi. Non può sfuggire la loro dichiarata discontinuità con la tradizione delle costituzioni liberali. L’eredità, pur rilevante, della “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789”, viene allora superata con la volontà di immettere nelle costituzioni ciò che prima non c’era mai stato: la democrazia sociale. La democrazia doveva dunque essere aggettivata per avere un senso. Il cambiamento segnerà un’epoca. L’essenza delle democrazie viene individuata nell’uguaglianza. La lotta alla disuguaglianza diventa il principale obiettivo programmatico di una Costituzione che fa del lavoro (non dell’impresa o della proprietà) il fondamento della Repubblica. I rischi dell’esistenza non sono più affidati al mercato. La democrazia progressiva (o integrale) non è, come viene sostenuto infondatamente, l’ideologia di una sola parte (dei comunisti e dei socialisti), bensì l’ideologia condivisa che viene messa a base della Costituzione. Il mondo diviso in blocchi contrapposti e la reazione di classe metteranno poi in discussione questa conquista culturale che diventerà soprattutto, da lì in avanti, il terreno della lotta politica nel paese, ma essa continuerà a lavorare nella formazione del senso comune, tanto che non è possibile pensare la costruzione dello stato sociale e la conquista dei diritti dei lavoratori senza quei fondamenti ideologici che sono, insieme a quelli delle costituzioni democratiche, la causazione ideale dei 30 gloriosi. La presenza dello Stato nell’economia e la partecipazione dei lavoratori alla vita pubblica si venivano infatti configurando, insieme al ruolo riconosciuto ai partiti di massa e ai sindacati, come la strumentazione con la quale condurre la lotta alla disuguaglianza.
Il caso italiano costituirà la massima espansione di questo modello sociale nel pieno sviluppo del ciclo fordista-taylorista. Il ’68-’69 ne segnerà l’oltrepassamento nell’incontro con l’onda della contestazione che attraverserà il mondo riaprendo la questione della trasformazione, della rottura e declinando il tema dell’uguaglianza con l’ambizioso linguaggio dell’egualitarismo. Se si estrae così il nucleo duro dai 30 gloriosi si ha per intero, in tutta la sua drammaticità, il rovesciamento operato nel ciclo lungo che ne è seguito. Non una modernizzazione, da un lato, e una rivincita di classe, dall’altro. Ma la fondazione di un diverso assetto della società su nuove basi a partire dal rovesciamento del paradigma centrale: il lavoro, da fondamento della repubblica nella lotta alla disuguaglianza, diventa la variabile dipendente del nuovo sovrano, la competitività del mercato. La globalizzazione si impone come rivoluzione capitalistica restauratrice, proprio così, e cambia il quadro intero.
... Segue nel primo post...
martedì 20 gennaio 2009
La Costituente di una nuova sinistra dopo la fine del ciclo della controriforma.
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LA MODERNIZZAZIONE REGRESSIVA E I SUOI EFFETTI SULLA DEMOCRAZIA
Non si capisce niente di ciò che è accaduto anche nella soggettività, nelle culture diffuse, nella politica, se non si intende bene questo punto essenziale. La rivoluzione conservatrice si è integrata in questa modernizzazione regressiva che ha rovesciato il rapporto tra economia e politica rispetto al ciclo precedente, riducendo, al fondo, la politica ad un ruolo servile dell’economia. La costituzione materiale ha divorato la costituzione formale. La lex mercatoria ha occupato la scena del mondo scacciandovi gli “intrusi” che l’ascesa delle masse popolari aveva introdotto, dall’idea delle Nazioni Unite, agli accordi di cooperazione internazionale, alle sovranità popolari, all’intervento pubblico nell’economia, al riconoscimento dei diritti sociali. Si è consumata una crisi profonda della democrazia e della politica tanto che quando, in una nuova dimensione sovranazionale come quella europea, si è fatta strada la necessità di un ordinamento costituzionale, si è tornati alle costituzioni liberali cancellando la storia intera di quelle democratiche, per rinunciare, infine, a qualsiasi ambizione costituzionale e approdare alla cultura del trattato: la fine dell’ambizione di disegnare il futuro della società. Nella globalizzazione capitalista si è consumato il paradosso dell’Europa: nel momento massimo della sua necessità storica essa si è “formata” dissolvendosi nel mercato. I rischi dell’esistenza umana sono tornati ad essere affidati al mercato in un capitalismo che riprendeva la sua ambizione più smisurata e, per fortuna, mai del tutto realizzabile, quella di sussumere tutto, proprio tutto, dentro di sé, riducendo tutto, proprio tutto, a merce.
Abbiamo così visto all’opera un capitalismo totalizzante capace di sbriciolare le conquiste del secolo precedente. Lo stato sociale è stato ridotto a costo di produzione da tagliare, la sua densità è stata considerata un fattore di arretratezza. La lotta alle disuguaglianze è stata sostituita dalle miserie culturali delle pari opportunità e di un Welfare compassionevole, con il conseguente abbattimento delle protezioni sociali. La disuguaglianza è stata accolta quale componente necessaria della crescita e dell’arricchimento. Le garanzie sociali sono diventate delle rigidità considerate, a loro volta, come un ostacolo allo sviluppo competitivo. La modernità si doveva esprimere nell’assolutizzazione della flessibilità del lavoro. La precarietà è diventata l’esito atteso nel lavoro e nella vita delle persone; la nuova cifra della condizione sociale del tempo. In alto, la finanziarizzazione dell’economia si combinava con un’accelerazione e un’espansione dell’innovazione tecnica e scientifica nel cui contesto si affacciavano, spinti dalla deterritorializzazione della produzione, nuove potenze economiche che nascevano su territori dove più bassi, spesso incomparabilmente più bassi, erano le tutele, i diritti e il costo del lavoro. La potenza del nuovo ciclo capitalistico si poggiava sui grandi rovesci politici dei suoi avversari storici, la sconfitta del movimento operaio e del conflitto sociale in Occidente e il crollo dei regimi dell’Est europeo, e alimentava una ideologia così pervasiva da diventare, per un certo periodo, pensiero unico e una politica di governo, quella neoliberista, che si è pretesa senza alternative possibili.
Sono stati i 30 ingloriosi della grande controriforma. Sembravano, ai più, irresistibili. Gli apologeti ne cantavano le magnifiche sorti e progressive e pazienza per chi stava peggio. E’ il mercato, bellezza. Se qualcosa non andava per il verso giusto, se qualcosa restava fuori, o si ostinava a restare fuori, c’era sempre, come arma dissuasiva, la repressione in nome della sicurezza e si poteva persino dar corso all’idea più estrema, quella dei neo-conservatori, l’idea della guerra preventiva, della guerra permanente, concepita per difendere la civiltà della globalizzazione. Fuori restavano, nel campo della globalizzazione, solo i punti di resistenza, le eredità del ‘900 che mantenevano, in posizioni di minoranza, la critica e il dissenso, finché la nascita del movimento di critica alla globalizzazione, il movimento dei movimenti prima, e il movimento pacifista poi, hanno aperto la strada a contestazioni, lotte ed esperienze tali da configurare il venire alla luce di un nuovo protagonismo critico, il primo movimento post-novecentesco che, a fronte della globalizzazione capitalistica, ha affermato che un altro mondo è possibile. La sua forza non è stata tale da impedire le guerre e da sconfiggere il neoliberismo, mentre le sinistre, nel loro insieme in Europa, perdevano un’occasione storica per la loro rifondazione. Ma qualcosa era accaduto nelle soggettività e una traccia è restata durevolmente. Il conflitto non si è potuto espungere dalla società.
LA CRISI ATTUALE
Certo, quando la crisi del capitalismo finanziario globalizzato è esplosa negli Usa non è stato per il venir a maturità della contraddizione esterna bensì per quella interna. Tuttavia la crisi ha dato pienamente ragione al movimento di critica della globalizzazione capitalistica tanto che, seppure senza che se ne possa prevedere l’esito, a proposito di quale sarà il nuovo ciclo, la crisi mette fine al secondo ciclo lungo del dopoguerra, il ciclo della grande controriforma. Lo dice appieno la natura della crisi.
Essa è intanto descritta dal lato della quantità in termini così imponenti da investire pressoché ogni paese del globo e da non consentire una previsione di uscita da essa in tempi né brevi, né facilmente immaginabili. Ma è l’indagine qualitativa che ne disvela fino in fondo il carattere. La crisi è scoppiata in una parte del mondo, gli Usa, e nella sfera finanziaria, la bolla, ma essa ha immediatamente, progressivamente, e sempre più, investito l’economia reale. Già l’avevano preceduta altre bolle e altre se ne temono. Sotto, spingeva alla crisi ciò che si veniva organizzando nell’economia, le sue contraddizioni interne, e, ancor più sotto, ora si può ben vedere quanto abbiano lavorato i fattori sociali generati dalla stessa modernizzazione capitalistica. Si può dire che proprio ciò che ha consentito il potente dispiegarsi della globalizzazione, cioè il controllo pieno da parte del capitale del mercato del lavoro e del lavoro, ha prodotto il vuoto di domanda che ha sospinto il sistema al consumo drogato (l’origine della bolla). La locomotiva americana è stata spinta ai livelli più alti della produttività e dell’innovazione da una politica monetaria espansiva, da iniezioni di denaro pubblico sistematiche, dal sommarsi dell’indebitamento pubblico con l’indebitamento privato. Ciò che l’adesione provinciale alla filosofia neoliberista ha impedito all’Europa, che l’ha condannata a regimi di bassa produttività e che, complessivamente, l’ha imprigionata in una collocazione secondaria sulla scena mondiale, se lo sono invece permesso gli Usa. Ma quando gli Usa hanno dovuto riscoprire il mercato interno, il regime di bassi salari e bassi stipendi, il regime di disuguaglianza crescente, ha rivelato un problema gigantesco che è stato affrontato, aprendo la strada alla crisi, lungo la linea di fuga del consumatore indebitato. Proprio questo patologico indebitamento ha costituito il primo anello della catena di un’esposizione crescente al rischio da parte del prestito, che, diventato esponenziale, non poteva che esplodere, come è accaduto, negli anelli della catena posti più in alto. Questi anelli sono così grandi e così pesanti nel sistema da dover però essere salvaguardati a qualsiasi costo. Ma a quale costo e chi è chiamato a pagarlo? Parallelamente il mercato, con la negazione di un intervento pubblico programmato e, con esso, delle capacità di realizzare grandi investimenti e redditività differite nel tempo, cioè a resa lontana, si è privato di qualsiasi capacità di conversione industriale e merceologica e ha sospinto al consumo (indebitato) di quei beni che hanno costituito lo scheletro della società dei consumi ma la cui maturità consiste ormai nell’essere energivori quando la soglia critica prescritta dall’ecologia è già pericolosamente valicata e la riforma energetica è diventata improcrastinabile. Alla crisi economica si somma dunque, intrecciandosi ad essa, una rigidità del modello di produzione-consumo che la aggrava drammaticamente. I 30 ingloriosi della controriforma si sono sfracellati sulle sue contraddizioni interne. E’ la crisi del modello. Lo confermano le reazioni delle classi dirigenti. La loro capacità di rimuovere d’un colpo tabu che esse stesse avevano eretto, è, da un lato, la conferma della flessibilità e della capacità innovativa del capitale e dei suoi alti funzionari e, dall’altro, per la radicalità della svolta realizzata, l’evidenziazione della gravità della crisi. Grande sarà la spinta alla ristrutturazione dell’economia, ma in quale direzione? Un numero de La Stampa di fine anno si apriva così: “Un’ondata di nazionalizzazioni e salvataggi pubblici si sta diffondendo nel mondo, nel tentativo di contenere la crisi finanziaria”. Poi l’autorevole editorialista proseguiva: “Di questa ondata di nazionalizzazioni e salvataggi colpisce l’ampiezza e la rapidità. Nel solo 2008, in termini di cassa (ed escludendo dunque le garanzie), gli interventi statali di salvataggio si stanno avvicinando a 3 trilioni (3000 miliardi) di dollari. Giusto il doppio dei proventi di tutte le privatizzazioni realizzate nel mondo in trent’anni…, ".
Non è un punto secondario quello che così cade dell’edificio delle politiche economiche del trentennio trascorso. Ma se l’intervento pubblico nell’economia torna come una necessità, come un terreno obbligato, non bisogna illudersi che con esso torni la cultura economica in cui esso era nato. La contesa si sposta sulla natura dell’intervento pubblico: per determinare quali assetti proprietari, quali obiettivi economici, sociali, ecologici esso debba perseguire. Il mondo si affaccia immediatamente come scena prima della politica. La sconfitta di Bush si porta via, con l’ideologia pestifera dei neo-conservatori, la teoria della guerra preventiva. Il mutamento è imponente. Ma la crisi non propone la ricerca di un nuovo rapporto tra le economie, le monete, le forme di intervento pubblico delle diverse aree geopolitiche del mondo per costruire un’economia di pace, per dar vita a una leva potente e, su scala mondiale, per la riconversione? Di tutto ciò neanche l’ombra. E neanche l’ombra di un cambiamento reale sull’altra questione di fondo: il rapporto tra capitale e lavoro, o, almeno, tra profitto e salario. Capita che, anche chi ha sostenuto con rigore le politiche neoliberiste, metta in luce, con onestà intellettuale, un aspetto nodale dell’arcano del lungo ciclo ora entrato in crisi. Lo ha fatto, per esempio, Innocenzo Cipolletta in un articolo nel quale lucidamente spiega la ragione di fondo della lunga fase di crescita dell’economia senza inflazione e la rintraccia nel regime di bassi salari o di mancato aumento dei salari in cui essa ha avuto luogo.
(….)In realtà, la spiegazione della crescita senza inflazione del ciclo neoliberista sta in una ragione di classe: nell’aumento della disuguaglianza, nell’emergere del lavoro povero e in una distribuzione della ricchezza fatta a scapito del salario. L’astuzia della storia qui è però consistita nel trasformare la causa prima del successo del ciclo neoliberista nel fattore primo anche della sua crisi, un fattore tanto indiretto quanto così potente da spingere il sistema ad una compensazione (l’indebitamento privato) rivelatasi impossibile, un fattore tanto imponente da generare la crisi. Ma se l’analisi individua un nodo di fondo della crisi dell’ultimo ciclo lungo, le classi dirigenti fanno e faranno di tutto per rimuoverlo dalle terapie da adottare. L’intervento pubblico nell’economia è obbligato, l’aumento dei salari no, la riforma dell’economia nemmeno. Per ora non si vede all’opera in Europa un qualche riformismo borghese. Converrà seguire con attenzione quello d’Oltreatlantico. Philippe Askenazy, il brillante direttore dell’Ecole d’économie di Parigi, ha scritto: “Imposte, sanità, ricerca… e numerosi altri punti del programma di Obama hanno una tonalità più vicina al progetto del Nuovo Partito anticapitalista di Besancenot che di quelli presentati nelle diverse mozioni del Partito Socialista [francese]. Allora, Obama anticapitalista? Certamente no. L’obiettivo è di riequilibrare il capitalismo americano per fargli guadagnare in efficacia. D’altronde, Obama è progressivamente divenuto il candidato preferito dei capitalisti che hanno finanziato largamente la sua campagna elettorale. Essi hanno semplicemente capito l’esaurimento della politica di esasperazione delle ineguaglianze e di riduzione dei servizi pubblici…”
OBAMA “ANTICAPITALISTA”?
Del resto, negli Usa la crisi delle tre grandi di Detroit, General Motors, il simbolo della via americana, Chrysler e Ford, ha scosso a tal punto la politica da far pensare ad interventi pubblici che hanno fatto dire a Jeffrey Garde, l’economista di Yale che è stato Segretario al Commercio degli Usa: “Non succedeva dalla Seconda Guerra mondiale, quando il governo ordinava alla General Motors quali carri armati dovevano produrre”. E’ negli Usa che è venuta avanti l’ipotesi di affiancare al megaprestito pubblico a due delle tre grandi una partecipazione azionaria di maggioranza in esse. Ed è sempre negli Usa che si è fatta strada la proposta di uno “Zar di Washington” che secondo il Wall Street Journal potrà decidere persino che “una parte degli impianti di General Motors debba servire a produrre treni, autobus, metropolitane, cioè trasporti pubblici anziché mezzi privati”.
Staremo a vedere, ben sapendo che una cosa è la campagna elettorale, altro, ben altro, è il concreto esercizio di governo. Come andrà seguito con attenzione ciò che accadrà in un’altra area decisiva del nuovo mondo, la Cina. Lì il piano di investimenti pubblici con cui il sistema replica alla crisi è imponente e la risposta gode del vantaggio, oggi non contestato da alcuno come tale, di potersi appoggiare su grandi e solidi assi pubblici capaci di organizzare una spesa immediata in investimenti e in opere. Ma, seppure diversamente che in Europa e negli USA, anche in Cina il problema sociale (le diseguaglianze, i bassi salari) sfida l’efficacia della risposta economica…
E’ in Europa che non c’è un granché da vedere sul fronte del riformismo borghese mentre, purtroppo, la sinistra resta muta. Basterebbe constatare che mentre avanza una recessione dura (e che si annuncia lunga), mentre l’occupazione diventa il terreno assolutamente prioritario di una politica economica appena degna, mentre donne e uomini, a partire dai precari, precipitano nella disoccupazione, l’unica questione all’ordine del giorno è quella degli ammortizzatori sociali, cioè di misure (certo necessarie) che leniscono il disagio sociale ma che, per definizione, non ne fronteggiano le cause. Il rischio che la crisi faccia il suo corso spontaneo è crescente. Se così fosse la crisi finanziaria, che è diventata crisi economica, diventerà crisi sociale. Povertà e disoccupazione sono i nuovi spettri che si aggirano in Europa. C’è un’onda lunga che prosegue il suo cammino oltre il lungo ciclo economico con cui è cresciuta, un’onda che rischia di protrarsi al di là della crisi di quel ciclo economico. Se così fosse, se non si battesse questa tendenza, sarebbero guai seri. Il nuovo ciclo, quello che in ogni caso si sta aprendo, sarebbe foriero di nuove demolizioni di civiltà e di una nuova rivoluzione passiva. Nell’Europa continentale il riformismo borghese appare come un visconte dimezzato e quando appare, pur in vesti poco credibili, sembra più propenso ad affacciarsi a destra che nel centro-sinistra dove l’assenza di alternatività è fin impressionante.
LA SINISTRA IN EUROPA,
UN CAVALIERE INESISTENTE
Ma è la sinistra ad essere, in Europa, il cavaliere inesistente. La sinistra radicale, scompaginata, è muta di fronte ad una crisi che le dà letteralmente ragione ma non le restituisce la parola. (…)Se la coppia crollo-rivoluzione non è alla viste, al contrario la coppia crisi-ristrutturazione, piuttosto che dar luogo ad un ciclo di crescita durevole, produrrà, con tutta probabilità, un accorciamento ulteriore del ciclo di crescita e un ulteriore avvicinamento temporale di una crisi a quella che l’ha preceduta, mentre la mancata mutazione del modello economico di base (…) può persino far incombere, con una crisi di civiltà, una catastrofe. A meno che maturi, anche soggettivamente, l’alternativa di modello che è già matura oggettivamente, storicamente. Chi parla acriticamente della crisi come opportunità indica, al contrario, una prospettiva fuorviante come se il cambiamento, rispetto al ciclo morente, fosse nelle cose. È la riedizione di una nuova apologetica. Caduta quella che confidava nel vento della globalizzazione (ricordate il secondo Ballo Excelsior a poco meno di un secolo dal primo?), dimentico dello smacco subìto, il nuovo apologeta si affida ora proprio a ciò che la globalizzazione avrebbe dovuto sconfiggere per sempre: la crisi.
Si profila a rafforzare l’ottimismo dell’oggi anche una corrente culturale che rivaluta, contro l’analisi storica che ne ha messo in rilievo la tragicità, i grandi periodi di crisi quali generatori di benessere. Abbiamo letto rivisitazioni del Trecento che così leggono persino la peste, osservando che i sopravvissuti (uno su due, al massimo due su tre) avevano potuto star meglio ereditando e usando i beni prima necessariamente da dividersi in una platea più ampia. Basta non mettersi dalla parte di quelli che soccombono, neppure se sono la metà dell’intera popolazione! In realtà la crisi porta danni sociali pesanti con i quali è difficile fare i conti, mentre ardua è la costruzione di una alternativa. Ci si deve e ci si può provare. Ma la prima condizione per farlo è un’attenta ricognizione del terreno della contesa, delle forze in campo, delle tendenze in atto, senza tacere la difficoltà più grande che consiste, in Europa e in Italia in particolare, nella crisi drammatica e senza precedenti della sinistra politica.
La seconda condizione è fare l’inchiesta, tornare a descrivere, con i protagonisti, la mappa dei conflitti, farne emergere la narrazione in tutte le molteplici lingue di una realtà sociale frantumata ma non inerte. La terza è disporsi al confronto con tutte e tutti coloro che sono interessati a mettere in discussione le separatezze, i solipsismi, gli arroccamenti (ma dove?) per ricostruire un tessuto di relazioni attive, un legame sociale e culturale che possa costituire la condizione ambientale di un conflitto capace di riguadagnare il centro della scena ed affrontare i nodi decisivi della contesa. Per concorrere a costruire un nuovo ciclo lungo, che rompa col paradigma neoliberista che l’ha preceduto, bisogna saper lavorare alla formazione di una ideologia che lo giustifichi. Non si può pensare di farlo tornando a quella del tempo dell’oro. Ma la rammemorazione dei passaggi che, nel nostro passato, hanno insediato una critica reale dell’economia capitalistica è indispensabile se si vuole lavorare alla produzione della nuova (e adeguata) critica.
TRE PASSAGGI ESSENZIALI
Tre a me paiono questi passaggi nella storia del nostro paese dopo la Resistenza. Da essi bisogna saper trarre ciò che vive come lezione per il presente e per il futuro. Sono tre passaggi nei quali la critica dell’economia, del modo di produzione capitalistico ha preso la forma di una critica di massa e ha annunciato, prima di essere sconfitta, una alternativa di società. Essi sono: il processo costituente che ha portato alla Costituzione repubblicana del ’48, il biennio della contestazione studentesca e operaia del ‘68-‘69 e il movimento altermondista dell’inizio del nuovo secolo. È in questi tornanti che le culture critiche del moderno capitalismo, quelle del movimento operaio, del femminismo e dell’ambientalismo hanno fatto le loro prove intrecciandosi, sovrapponendosi e, a volte, confliggendo senza riuscire a sfociare in una nuova, efficace e compiuta critica dell’economia capitalista, ma concorrendo a realizzare straordinarie esperienze e grandi cambiamenti sociali e civili. Riprendere la loro tessitura, a valle di sconfitte anche feroci, di cui dobbiamo ancora indagare le ragioni e leggere gli errori, può diventare l’incipit del nuovo discorso. Un inizio da fare interagire con l’altro filo dello stesso discorso, quello della critica al capitalismo, a partire dall’analisi della crisi del capitalismo finanziario globalizzato che ci sta investendo e dall’elaborazione di una proposta di politica economica e di assetto della società che metta in discussione, in radice, il modello economico e sociale esistente. Potremmo partire, con chi ci sta, dalla messa in opera di una rete di rapporti per l’apertura di un grande e partecipato laboratorio di ricerca per un piano del lavoro da buttare in un dibattito politico altrimenti insopportabile.
In questa costruzione ci sarebbe la possibilità di connettersi con le realtà sociali, di movimento e di lotta presenti nel paese. Una proposta che prenda per le corna un obiettivo senza il quale non c’è alternativa allo stato delle cose esistenti, quello di piena e buona occupazione. Un obiettivo capace di mettersi in rapporto con il lavoro industriale, dei servizi, della pubblica amministrazione, come con le molte forme di lavoro autonomo, precario, misto e con tutta l’area del non lavoro, con i disoccupati. Un obiettivo che deve essere capace di investire i temi cruciali del cosa, chi, come, dove, per chi produrre e delineare un processo di riconversione dell’economia, entro cui proporsi una redistribuzione della quantità e della qualità del lavoro e una diversa gerarchia dei consumi. Un obiettivo che non arretri di fronte alla necessità, per perseguirlo, di mettere in discussione gli assetti di potere e di proprietà.
In tutti i grandi passaggi, di fronte alle crisi, quando si è voluto imboccare una strada diversa dalla ristrutturazione capitalistica sono emersi due grandi temi: quello della pianificazione e quello di come attribuire al lavoro e alla collettività la soggettività economica nell’impresa. Non si tratta solo, e pure va fatto, di ripensare la presenza pubblica anche in termini di proprietà statale. La questione spinosa, ma, in questo ambito, necessaria, dell’autogestione nell’impresa e di impresa e della partecipazione della collettività e dei lavoratori alle sue decisioni strategiche (il “governo democratico dell’economia”) dovrebbe essere ripensata, anche tornando a studiare criticamente, ma senza demonizzazioni, un largo spettro di tentativi, da quello svedese del piano Meidner a quello jugoslavo della “legge sul lavoro associato” fino alle esperienze messe in atto in Francia (la Lipp), ma anche in Italia, sull’autogestione. Se la sinistra non c’è, e purtroppo non c’è, proviamo a farla rinascere dalla risposta da costruire alla crisi, oltre che da una ripresa della presenza nei movimenti.
PER UNA MOLTIPLICAZIONE
DELLE INDIPENDENZE
Ma quale tipo di presenza? La domanda non è affatto peregrina. Il cambiamento rispetto al passato, anche recente, non potrebbe essere più grande. Da un lato non c’è più la sinistra (hai detto una briscola), dall’altro, dall’altro, la novità non è meno significativa.
Se questo del vuoto della sinistra è un tratto drammaticamente nuovo in una parte rilevante dell’Europa continentale, l’altra novità è costituita dalle caratteristiche dei movimenti che si sono presentati sulla scena negli ultimi mesi, specie in Italia. Credo si possa parlare di movimenti di indipendenza sociale o sociopolitica, di movimenti di contrasto che nascono, crescono e si esprimono negando ogni loro rappresentabilità. Questa caratteristica è espressione, insieme, di un vuoto (la sinistra politica) e di un pieno, come nel caso della scuola dove le diverse realtà e soggettività che la compongono si sono costituite in unità sulla base del comune apprezzamento di valore dell’esperienza in essa prevalente e di un bisogno unitariamente accumulatosi, il ruolo formativo ed educativo della scuola pubblica repubblicana. Si tratta, come si vede, di una intrinseca politicità del fare movimento che, per altro, diversamente da tutti i movimenti che lo hanno preceduto, evita ogni tipo di rapporto con la rappresentazione e con le forze politiche organizzate (sindacato, compreso) sia perché teme di esserne inquinato e diviso, sia perché non crede alla possibile efficacia dell’alleanza tra i due momenti, quello del movimento nella società, e quello della politica (a partire da quella della sinistra) nelle istituzioni. Dell’altra faccia della politica, quella nella società, il movimento ha tutta l’aria di dire, come l’Aretino, “non la conosco”. La chance e il problema sono, mi sembra, entrambi abbastanza evidenti. Ad animare il movimento della scuola (attenzione, non “per la” e nemmeno “nella”, ma “della”) è stato un soggetto sociale plurale e complesso le cui componenti principali, insegnanti e studenti, sono stati altre volte in conflitto, e nella quale ha svolto un ruolo di primo piano, diversamente dal passato, l’esperienza della scuola elementare…. Per sua esplicita scelta questo non si pone esplicitamente come un movimento di sinistra, come lo sono stati invece, nel loro prevalente, i movimenti che hanno attraversato la storia del paese. Ma i suoi contenuti, quelli che sono emersi nelle assemblee, nei seminari, nelle manifestazioni, sono indubbiamente gli stessi che dovrebbero animare una collocazione di sinistra nella società. Il fatto è che il clivage sinistra/destra, ma anche quello basso/alto della società, sono sussunti, stravolti e scomposti da un movimento che ce li restituisce in termini che richiedono un riposizionamento, anzi, a dire il vero, una reinvenzione della sinistra politica, affinché quei nessi tra la società e la politica che consentono di agire il cambiamento, la trasformazione, possano ricostituirsi. Questo moto indipendentista sta mettendo radici nell’Italia di oggi, tanto da investire non solo un movimento nascente ma persino la più classica delle forme di lotta del movimento operaio, lo sciopero generale, e la più antica organizzazione sociale e politica del paese, la CGIL. Uno sciopero generale così non si era mai visto. Proclamato dalla sola CGIL, difficile sia per ragioni oggettive (l’aggravarsi della recessione, il ricatto occupazionale, la diffusa precarietà) che soggettive (la sfiducia nella politica e la divisione sindacale), è stato uno sciopero popolarissimo. Il lavoratore che non se l’è sentita di scioperare ha solidarizzato con chi ha scioperato, ne ha condiviso la scelta, si è identificato con lui. Del resto, la stessa adesione allo sciopero è stata un risultato buono e importante. Eppure mai così drammatico è stato il deserto politico che l’ha circondato. Credo sia la prima volta che la CGIL affronta uno sciopero generale senza disporre del consenso dichiarato e del sostegno del principale partito di opposizione. Sono il pieno e il vuoto che spingono persino il principale e più politicizzato sindacato del paese ad una manifestazione di indipendenza e che spingono un’area vasta, la più vasta che l’Italia conosca, di attivisti, di militanti a contare solo sulle proprie forze, a forzare nella direzione della separazione dalla politica organizzata, dai partiti, dalla sinistra. Lo sciopero generale dell’indipendenza della CGIL. Il rischio è alto (rispetto alla tenuta), la sfida è assai impegnativa (si tratta di ricostruire l’autonomia dell’azione collettiva, del conflitto, la libertà di scegliere il conflitto da parte del lavoratore e di definire una piattaforma rivendicativa, sociale ed economica capace di fronteggiare la crisi). Ma per affrontarla, nell’attuale stato della sinistra, l’indipendenza dello sciopero generale deve probabilmente inoltrarsi anche su altri non facili sentieri.
Intanto, su un terreno tutt’affatto diverso sia dal movimento della scuola che dallo sciopero generale della CGIL, sono esplose rivolte generazionali e/o critiche che vanno dai beurs delle banlieues parigine agli scontri che hanno visto protagonisti i giovani greci ad Atene, rivolte che indicano fin dove è giunta la crisi della coesione sociale e dove e come possono partire le ribellioni contro uno Stato che si presenta a quei giovani solo con il volto della repressione e sempre per sancire la diseguaglianza e l’esclusione. Non si può dire che abbiano incontrato la politica e neppure l’organizzazione di una ricerca e di una riflessione adeguata. Qui c’è un’indipendenza subìta. Come si vede, le condizioni sono le più distanti e le situazioni prese in esame le più diverse, eppure a me sembra di vedere emergere una nuova propensione, quella all’indipendenza dei movimenti. Proverei ad indagare le movenze per capire, nel caso sia così, se non si tratti di uno stato, pur ora necessitato, che però può diventare virtuoso. Due mi sembrano le condizioni ambientali che ne favoriscono la diffusione. La prima è l’inesistenza o l’inconsistenza o l’impotenza della sinistra politica. La seconda deriva dal fatto che il consenso politico alla destra e allo stesso governo della destra non impedisce affatto l’insorgere nella società di forti movimenti di opposizione sociale o generazionale o di altra natura. Il consenso di opinione al governo non dà luogo alla pace sociale. Di più, neppure l’egemonia della rivoluzione conservatrice dà luogo alla pace sociale. Ma, e qui sta il nuovo gigantesco problema, questi moti di opposizione, pur anche capaci di ottenere risultati parziali, non possono riuscire a determinare le basi per un’uscita dal ciclo lungo della grande controriforma. Tuttavia la soluzione non può trovarsi nella ricostruzione del classico rapporto tra politica e società, tra partiti (della sinistra) e movimento. Una storia è finita. Mi pare impossibile tornare a quell’autonomia così preziosa per i movimenti quando il movimento operaio operava per favorirne l’ascesa e i grandi soggetti organizzati erano i canali della partecipazione delle masse alla politica. Non c’è più la materia su cui quella grande storia si è sviluppata. Siamo oltre anche la stagione del movimento dei movimenti, quello della più recente grande occasione. Dallo sfondo, mentre lo scontro di classe si è rovesciato, sono emersi nuovi linguaggi, anche in tecnologie di comunicazione, oltreché forme di espressione e di manifestazione di nuove culture, idee di sé e dell’altro, vere e proprie antropologie culturali che vanno riacchiappate dentro il tentativo di costruire un nuovo movimento operaio. Ma come? Forse invece che contrastare le forme di indipendenza in nome di un ritorno ad un sistema centralizzato, bisogna acquisire la consapevolezza che la critica al capitalismo e la rinascita di una sinistra anticapitalistica, quella dell’eguaglianza oltreché della libertà, passano oggi per la moltiplicazione delle indipendenze. Ci sarebbe allora da far vivere non solo nella società civile ma anche in quella politica e sociopolitica, l’indipendenza, al fine di imparare le lingue dell’autogoverno, del saper fare, di un saper fare diverso dal mercato e dalla mercificazione. Se la rete mondiale per un altro mondo possibile è stata la scommessa acutamente avanzata ma non vinta dal movimento altermondista (e da noi con esso), bisognerebbe provare ora a far vivere e a costruire, dopo la grande sconfitta e per evitare la cancellazione in Europa per un lungo periodo della sinistra, una costellazione di esperienze critiche (sul piano della ricerca teorica, come della pratica sociale, come della ricerca delle connessioni necessarie) da cui possono nascere i materiali di una nuova sinistra europea. Un processo costituente di una nuova sinistra anticapitalista può accompagnare questa impresa e da questa prendere forza per non abbandonare il terreno di lotta, sempre più impervio, ma pur sempre necessario, della democrazia rappresentativa. Ma bisogna prendere atto fino in fondo, della irreversibilità della crisi di questa sinistra, per come l’abbiamo conosciuta e vissuta. Se la crisi del capitalismo finanziario globalizzato non gli ha restituito parola e protagonismo, se la nascita di moti sociali indipendentisti non l’hanno rianimata vuol dire che la ragione della crisi è di fondo.
Per la sua rinascita, di cui c’è un bisogno estremo, non resta che, come diceva il navigatore, “buscar el Levante por el Ponente”.
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