Intervento introduttivo di Nichi Vendola al Seminario nazionale di Rifondazione per la Sinistra - 24 e 25 Gennaio, Chianciano
“A distanza di pochi mesi noi torniamo a Chianciano, nel luogo in cui la storia di Rifondazione comunista è precipitata dentro un buco nero. Nel breve intervallo di tempo che ci separa dal luglio afoso del congresso del Prc, il mondo ha conosciuto straordinari cambiamenti, un vero passaggio d’epoca ha liquidato tante leggende e superstizioni ideologiche che hanno innervato il racconto egemonico della globalizzazione liberista, si è rotto il livido mappamondo che ruotava sull’asse della teocrazia finanziaria e della guerra infinita, sono esplose in forme spettacolari contraddizioni che dicono di una crisi strutturale del nostro ambiente sociale e del nostro ambiente naturale. Ma, a dispetto di questo vorticoso accumulo di punti di crisi e di accelerazioni della storia umana, tutti noi siamo rimasti come immobili, risucchiati nel gorgo della contesa intestina, prigionieri della deriva populistica e identitaria del nostro partito, sgomenti per la torsione vetero-comunista di una vicenda, quale quella di Rifondazione, che fin dall’inizio e fin dal suo stesso nome si era presentata ed era cresciuta come un cantiere di revisioni culturali e di innovazioni politiche. Siamo stati comunisti non per un bisogno di fedeltà al passato, ma per un bisogno di libertà del presente e del futuro. Siamo comunisti non per replicare, nei secoli dei secoli, una storia codificata, una liturgia monotona, una forma statica che contiene una verità rivelata: ma per liberarci dai fantasmi e dai feticci di un mondo che strumentalizza la vita, mercifica il lavoro, distrugge la socialità. Chi pensa che il comunismo sia una declamazione, un percorso provvidenziale che va solo ripulito dalle ombre dell’eclettismo e del revisionismo, chi lo custodisce come una reliquia e lo offre alla oscura modernità in cui viviamo come una talismano politico, chi lo annuncia come una fede e lo vende a buon prezzo come il pane da spezzare insieme per esorcizzare la paura della crisi: chi fa così merita certamente rispetto, ma agisce la politica come fuoriuscita dalla realtà e come rinuncia alla trasformazione dello stato delle cose. E noi che vogliamo emendarci dalla pratica dell’anatema e del disprezzo, oggi dobbiamo disarmare parole e sentimenti con cui attraversiamo la scena pubblica, anche per evitare che la nitidezza di una battaglia politico-culturale (quella contro il dogmatismo, il settarismo e il minoritarismo) possa essere confusa con una questione di risentimenti e di rendiconti interni al ceto separato della politica. Quel prototipo di comunismo settario e autocelebrativo è stato più volte sconfitto e ridotto alla più insignificante marginalità. Già al tempo delle “Tesi di Lione” e della lotta aspra al bordighismo, ma poi in tutta la titanica fatica dei “quaderni del carcere”, Gramsci restituisce un’immagine del comunismo aliena da qualsivoglia conformismo dogmatico: non una scolastica, non una precettistica, non un catechismo, insomma non un calco ideologico a cui piegare la realtà, ma una ricerca libera e gigantesca sulle radici storiche della sconfitta della rivoluzione in Occidente. Il comunismo come sviluppo di una domanda piuttosto che come reiterazione ossessiva di una risposta preconfezionata. Il comunismo come ricerca e movimento reale piuttosto che come farmacopea o invocazione dottrinaria. E nell’immaginare il Partito come “intellettuale collettivo” - e dunque come soggetto vocato a rompere la separatezza tra “autonomia del politico” e “autonomia del sociale” - gli affidava il compito di essere il “moderno Principe” che promuove la “riforma morale e intellettuale” del Paese: il Principe del Machiavelli era il soggetto politico e istituzionale che cercava con estrema spregiudicatezza di sconfiggere la logica feudale della centrifugazione in tante “piccole patrie” fondate su pretese araldiche o su sussulti localistici, il promotore di un processo di costituzione di un nucleo di moderna statualità fatta di un processo di unificazione territoriale e di omogeneizzazione culturale. Il moderno Principe gramsciano cammina su una grande frattura storico-sociale, quella “questione meridionale” che spiega la natura del capitalismo nostrano e evoca la “debolezza egemonica” della borghesia italiana già al tempo del Risorgimento. In questa prospettiva il partito non è davvero un fine, né tanto meno un predicatore ideologico o una enclave di “uomini nuovi”, bensì è una rete intelligente di lotte ed esperienze che ha senso in quanto organizza, nella società e nei luoghi in cui si produce società, la critica corale delle culture che mistificano e inibiscono la spinta sociale al cambiamento. E, dentro questo fuoco, il partito tesse la tela di un blocco sociale alternativo alla coalizione dominante, alternativo a quella alleanza di ceti speculativi e parassitari che sarà il letto in cui scorrerà il fiume del fascismo. Più tardi, dopo il tempo della clandestinità e della prigionia e dell’esilio, sarà il “partito nuovo” togliattiano a bruciare i residui di una concezione avanguardistico-pedagogica del partito, sarà quella la stagione dell’aderire ad ogni piega della società, e cioè della costruzione plurale e unitaria di movimenti sociali di massa che, nella moderna città industriale come nell’arcaica campagna del latifondo, potessero intrecciare il percorso emancipativo con l’educazione civile alle virtù della libertà. In quella parabola straordinaria, classe e popolo, anticapitalismo e democrazia, sono concetti che vivono in un equilibrio creativo, non dentro architetture ideologiche asfittiche ma come nodi della storia, della società e della vita, nodi da sciogliere nell’agire politico, e in un agire che era innanzitutto pensiero, analisi dei processi materiali, consapevolezza culturale della storia nazionale, orizzonte europeo ed internazionalista del proprio progetto politico. Anche la stampa comunista verrà concepita e governata come una rete di intelligenze e di esperienze intellettuali originali, come lo sviluppo di laboratori e di officine delle idee. Nell’Unità togliattiana si formeranno intere generazioni di giornalisti di razza, non leve di velinari e di agit prop, ma grandi penne del giornalismo d’inchiesta, del giornalismo colto e militante. Sono storie note, quelle che hanno fatto del Partito Comunista Italiano il protagonista fascinoso e popolare di una doppia anomalia: anomalia di un Paese così vitalmente segnato nel suo sviluppo democratico dal ruolo e dall’autorevolezza dei comunisti italiani, anomalia di un partito che si liberava progressivamente della soggezione al campo e alle mitologie dell’Unione Sovietica. Il Pci fu il punto più alto di espansione egemonica della sinistra in Occidente, e fu allo stesso tempo il punto più importante di autocritica del comunismo novecentesco. Fino alle parole nitide e per certi versi definitive di Enrico Berlinguer a proposito di “esaurimento della spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre”. Questa vicenda, che ovviamente fu arricchita (ma spesso anche impoverita) dalle esperienze delle sinistre critiche e dei gruppi extra-parlamentari, non può che essere il nostro punto di partenza: e infatti di lì partimmo per reagire alla prospettiva della liquidazione del Pci dopo la svolta della Bolognina. Non per revisionare le revisioni, non per abiurare dalle abiure, ma per dire di una cultura politica che era comunista nella misura in cui faceva della lotta contro ogni principio totalitario e contro ogni pratica di alienazione la propria ragione di vita. Noi difendemmo il Pci perché consideravamo ingiusto seppellirlo sotto le macerie del Muro di Berlino: ma non stavamo difendendo quel maledetto muro, la sua monumentale vergogna, il suo recintare sotto un controllo ferreo e cupo “le vite degli altri” (per citare il titolo di un bellissimo e doloroso film sulla Germania Est). Noi difendemmo il partito che, dentro un processo lungo e complesso, aveva segnato la rottura del “campo” comunista, che aveva con quello strappo dall’Urss riaperto e non chiuso la “questione comunista” come critica del modello di sviluppo e denuncia della società bi-fronte dello spreco e della penuria. Il socialismo reale, che pure a noi appariva così clamorosamente irreale, si era schiantato, squagliato rapidamente come neve al sole, e il mappamondo aveva perduto uno dei suoi punti cardinali, l’Est. Quel mondo era crepato non per un eccesso di comunismo, ma per un clamoroso deficit di comunismo: perché era una costellazione di regimi autocratici, perché le libertà fondamentali erano conculcate, perché il circuito dell’informazione era dominato dalla pratica della censura e dalla pedagogia della menzogna, perché il dissenso significava rovina e morte, perché il lavoro era alienato e alienante, l’economia dominata dai burocrati, la promessa della “socializzazione dei mezzi di produzione” fraintesa e confusa con quello che l’estrema sinistra chiamò il “capitalismo monopolistico di Stato” che aveva ridotto ad una cifra grottesca i sogni dell’Ottobre. Dentro questo solco ha camminato la nostra Rifondazione, fino all’approdo teoricamente e politicamente più impegnativo: quello dell’assunzione del paradigma della nonviolenza. Un salto anche di linguaggio, l’ingresso in un universo semantico e simbolico ricco e stimolante: non la rinuncia alla critica di classe, ma il suo esodo dalle antiche mitologie della conquista del Palazzo d’Inverno, la sua capacità di contaminarsi con la critica radicale dei meccanismi di produzione della violenza e della violenza che si fa potere: la critica del patriarcato e del vocabolario maschile che nomina ed eternizza un mondo mutilato della libertà femminile; la critica di un modello di crescita economica che usa la biosfera come una discarica, che dissipa ogni giorno un segmento di quel patrimonio di biodiversità e di multiculturalità che costituisce la ricchezza della vita e il senso della vita. La viva vita, non quella ideologizzata da molti pulpiti più o meno sinceri. La vita vera di cui dobbiamo garantire, per tutti e per ciascuno, per tutte e per ciascuna, l’assoluta inviolabilità, la sua irriducibilità, per chiunque, a corpo contundente, a strumento, a oggetto, a cosa da usare e di cui abusare: quanti album di foto sui corpi dei nemici uccisi, uccisi e poi straziati, straziati ed esibiti come trofei, ci sono nei depositi remoti della nostra psicologia sociale? Quanto bisogno, ancora oggi, tutti noi abbiamo di dotarci di un nemico capace di darci identità, e più lo odiamo più sentiamo di possedere consistenza? e ucciderlo simbolicamente e spesso anche materialmente coincide con la nostra massima auto-affermazione: negare la vita a chi è il mio altrove, mi dà la tranquillità di stare dove sto e di essere ciò che sono. Se uccido un infedele dimostro quanto sia cruciale coltivare fedeltà. E dunque la vita: non il terreno di un dominio etico-ideologico ma la vita determinata delle persone vive. Non l’imperio sulla giurisdizione della vita, sul chi decide del suo inizio e della sua fine, con questa finta morale che è confessionale e si camuffa da morale naturale: cosa ci sia di naturale nell’accanimento neppure terapeutico sul corpo-simbolo di Eluana è difficile dirlo, così come è difficile capire dove sia emigrata la coscienza laica di un Paese in cui bisogna aprire una contesa politica per eseguire una sentenza inappellabile pronunciata da una corte suprema, così come è difficile capire dove sia precipitata quella pietas cristiana che pare soppiantata da un “magistero della paura” che riporta la Chiesa a prima del Concilio e che piuttosto che annunciare una “buona novella” si specializza negli anatemi contro l’umanità peccatrice.
La viva vita, insomma. Quella che ci interroga senza sosta, dopo Auschwitz e Hiroshima, dopo l’organizzazione scientifica dell’industria dello sterminio di massa, dopo i virtuosismi burocratici delle deportazioni e delle rieducazioni, dopo i gulag e le fosse comuni, dopo le guerre calde e quella fredda, dopo le guerre a bassa intensità e le macellerie sudamericane, dopo le guerre etniche e quelle religiose e quelle tribali e quelle telecomandate come videogames, dopo gli hotel Ruanda; e ora, durante questa lunga lenta oscena strage di Gaza, qui dentro il crinale più melmoso, dentro l’orizzonte di onnipotenza e nichilismo che è stato battezzato “guerra infinita”, la vita vera che ci chiede pensieri e vocaboli impegnativi ed inauditi che possano ergersi come una soglia fondatrice della civiltà futura, come il cimento di tutta la politica e di tutte le culture chiamate a disegnare le mappe di un mondo nuovo. La vita altrui che è il paradigma del limite nostro, violando il quale romperemmo il senso stesso della nostra vita e di tutta la vita.
E se questi sono i compiti, se questa è la semina a cui dobbiamo dedicare il nostro impegno, se queste sono le sfide su cui ridefinire il senso e il modo dell’agire politico, a che vale resistere in una trincea che sentiamo arretrata, persistere in una appartenenza che ci appare vieppiù fuori luogo e fuori tempo? Se questo è il cimento che più ci intriga e più ci motiva, come possiamo mettere tra parentesi la piccola storia ignobile del processo sommario e della condanna di un collettivo redazionale e di un direttore che hanno fatto di Liberazione un giornale vivo, un luogo della libertà e delle idee, piuttosto che un morto repertorio della linea del gruppo dirigente del Partito? Sansonetti non era comunista al punto giusto oppure non lo era affatto? E allora? Era stato indicato lui, dopo l’esperienza formidabile e altrettanto libera del nostro caro indimenticabile Sandro Curzi, proprio per questo: perché Liberazione non fosse uno specchio del partito, ma una finestra aperta sul mondo.
E questa vicenda evoca troppe ombre di una storia antica e dice di un corto-circuito dentro la nostra comunità politica: non si è rotta solo la politica, è andata in pezzi la comunità. Allora occorreva davvero tornare a Cianciano per rimuovere il blocco, per trarre le conseguenze, per uscire dalla paralisi. Proprio perché l’altra sinistra, quella mirata al centro, sembra persa nei propri contorcimenti tattici, incapace di un pensiero che non sia subalterno al piano inclinato del governare in sintonia esibita con i poteri forti, proprio perché il veltronismo si presenta ormai come un mix compiuto di radicalismo etico e di moderatismo sociale che pratica la prospettiva di una “alternanza senza alternativa”, proprio per queste ragioni non possiamo condividere una linea politica che insegue la retorica del sociale (”in basso a sinistra”), del sociale assunto come luogo della salvezza e della rigenerazione, una sorta di Periferia planetaria in cui dare domicilio e protezione all’innocenza dell’ideologia. Le due sinistre oggi sembrano convergere in un unico destino: quello di estinguere le proprie ragioni sociali e la propria missione politica, chi sull’altare del governo, chi nella polvere dell’opposizione; il cupo destino di una sinistra che non è più capace di autonomia intellettuale e di distinzione morale, che fatica persino a comunicare le parole-chiave del proprio vocabolario, che certo ha smarrito interi patrimoni di quel principio-speranza che fa della politica una leva di impegno civile e di passione collettiva. L’Amarcord della sinistra mi intriga e mi serve, ma a condizione di non pensare a pratiche di riesumazione. Non ci sono resurrezioni in politica, ma solo nuovi parti, un nuovo partire piuttosto che un nuovo partito, un processo piuttosto che una sigla, una nuova casa in cui la sinistra delle libertà possa ospitare comunità di popolo e non elites di presunte avanguardie. Perchè il senso della sinistra sta tutto nella capacità di prefigurare e costruire il cambiamento: che non è una vaga aspirazione letteraria della coscienza del cittadino astrattamente inteso. Ma è la critica pratica di un economicismo che aliena nel processo produttivo tanta umanità, la riduce al rango di “costo del lavoro” e la soffoca nella dimensione generale del precariato. Il cambiamento o morde la polpa dei “rapporti di produzione” oppure è semplicemente un giro di valzer nel tempo libero. Qui c’è, tutto intero e profondo, il discrimine tra destra e sinistra. Il cambiamento è il rovesciamento materiale e culturale dell’egemonia liberista che ha segnato lo stile del processo di mondializzazione e di finanziarizzazione dell’economia. Per questo il Partito Democratico non ha una lettura critica delle ragioni della crisi vorticosa dei mercati finanziari internazionali, osserva l’avanzare delle nubi nere della crisi e della recessione come se fosse un fenomeno meteorologico, una calamità naturale, e non piuttosto la logica conseguenza di una filosofia economica che ha assoggettato la politica e introdotto la storia umana nel ciclo della “produzione di denaro a mezzo di denaro”, un tempo di svalorizzazione del lavoro e di enfatizzazione della ricchezza che si riproduce per partenogenesi, un tempo in cui, a destra come a sinistra, la modernità del mercato è divenuta l’unico regolatore sociale e il cuore della discussione politica. E gli slogan liberisti hanno fatto breccia a sinistra, fino a divenire - incredibilmente - sinonimi di riformismo. E il centro-sinistra ha fatto una critica più di forma che di sostanza al partito mondiale del liberismo: non contestarne l’impianto, ma attenuarne gli effetti sociali, ridurne i danni ambientali, censurarne gli eccessi. Da troppi anni in Italia, ma non solo, più si scivola a destra e più ci si identifica come riformisti, fino al punto che nella larga opinione pubblica, e per diverse volte, il più innovatore e il più riformista di tutti è apparso Silvio Berlusconi. Ma quando il centro-sinistra ha strappato, e per un pelo, il governo alle destre, non è stato in grado di indicare una visione generale, né di segnare una significativa inversione di tendenza rispetto a quella egemonia liberista che pure aveva conosciuto la straordinaria opposizione dei movimenti altermondialisti e della corale mobilitazione pacifista: il governo Prodi non ha provato neanche a mutare l’ordine del discorso di una realpolitik che chiedeva ottusamente continuità con Mastricht, non ha inteso quale fosse l’acutezza di una crisi sociale che investiva largamente anche il ceto medio, non ha annusato l’umore popolare di crescente insofferenza per le beghe di Palazzo che esponevano un centro-sinistra senza maggioranza in uno dei due rami del Parlamento a uno stress continuo e sfibrante. L’icona della casta sigillò la caduta verticale di consenso che fece scivolare il governo verso la crisi e il centro-sinistra verso il proprio capolinea, con la conseguente sconfitta elettorale di Veltroni e la scomparsa dalle istituzioni della sinistra. Un governo senza profilo e senza collante era per Rifondazione la prova dell’impossibile: non fuggire dalle proprie responsabilità, accettare la sfida e l’occasione del governo, ma essere efficaci nel proporre una mediazione con il punto di vista della sinistra di alternativa. Avevamo il dovere di essere efficaci: che questo fosse possibile è un altro discorso. Ma che questo fosse atteso, e non solo dai nostri militanti, è evidente. La nostra inefficacia ci ha omologati al resto del centro-sinistra in un giudizio che per noi è stato inappellabile e oltremodo severo. E non ci ha salvato quel simbolo pure salvifico dell’arcobaleno, perché era solo un segno grafico e non un sogno collettivo, era un cartello elettorale e non un laboratorio della società, perché era un accordo di stati maggiori e non un patto costruito con pezzi di mondo del lavoro e di giovani generazioni, e anche perché nella sua sfortunata selezione di rappresentanza istituzionale l’arcobaleno non ebbe il coraggio di praticare la consultazione dei territori e della società civile: anche organizzando quelle primarie che debbono divenire uno dei modi ordinari di funzionamento della sinistra. Insomma lì ci siamo fratturati le ossa e abbiamo visto sfumare la speranze che in quelle elezioni potesse cominciare una storia nuova piuttosto che chiudersi una storia vecchia. Invece si chiuse la storia vecchia. In una sola volta pagammo tutti i conti in sospeso. I conti di una sconfitta la cui gestazione dura da almeno un ventennio, la cui proporzione non è semplicemente quella elettorale, la cui spiegazione non può essere infantilmente ridotta all’aver contratto il virus del governo o all’aver assunto alcuni tratti della fisiognomica della casta. La sconfitta è nella distanza dai pensieri e dai sentimenti di quella coscienza generale che, nella crisi delle organizzazioni collettive e nella crisi degli apparati formativi, si educa alla cattedra televisiva della vita e della morte in diretta. Quella cattedra ci educa ad essere capitalisti dell’anima, protagonisti o spettatori di una fiction permanente che ha abolito quei tre tempi del presente (il passato del presente, il presente del presente, il futuro del presente) che Alessandro Natta mutuava da Sant’Agostino. Oggi noi viviamo in un presente senza tempo, senza scansione storica, senza spessore cronologico: quando noi parliamo del Novecento, alludendo a questioni cruciali che hanno animato immense speranze o che hanno generato immani tragedie, parliamo di un tempo che ha il suo spessore e il suo deposito di senso. Ma a chi stiamo parlando? Chi ci capisce? La comunicazione veloce, il tempo reale di scambio comunicativo nella comunità virtuale di Internet, ha come certificato l’avvenuta frammentazione del tempo, la sua polverizzazione, la sua esposizione alle intemperie del contingente. I morti sul lavoro sono cronaca nera, una colonnina tra le altre nelle statistiche ufficiali: non sono una sequenza, non sono un tempo significante, non vediamo più la strage come un nodo da tagliare con la lama del diritto alla vita. La morte è contemplata, come il licenziamento. Sono leggi metafisiche dell’economia. Oppure che cos’è il tempo di chi è appeso ad un contratto a progetto, per chi è interinale, per chi veste uno dei tanti abiti con cui nascondiamo quel gigantesco ricatto che pesa sui giovani e che rompe il loro tempo di vita, quel ricatto che è la precarietà, il contratto a tempo determinato, cioè a tempo ferito e svuotato di senso del futuro? Oppure in che tempo, o su che canale tv, avviene la tempesta di proiettili e fosforo che spezzano il cuore della Palestina? Perché questa avara reazione all’assedio di Gaza? Eppure lì non va in onda un vecchio film in bianco e nero, lì l’ansia di pace ruzzola in uno dei tanti precipizi in cui l’avventurismo americano, coprendo la destra israeliana, ha portato la geo-politica medio-orientale. Le diplomazie dal basso e le voci del popolo pacifista faticano a ritrovare una scena pubblica, la pace ha perso i suoi profeti e i costruttori di pace sembrano decimati dalla cultura bellicista che torna ciclicamente a offrirsi come garanzia di stabilità degli equilibri mondiali. La questione palestinese resta il più incandescente banco di prova per tutte le leadership mondiali. Ora è il tempo di ridare agibilità politica e inesplorate latitudini culturali alla pace, al suo progetto di giustizia sociale e al suo orizzonte antropologico. E non esiste compito più congeniale alla sinistra del futuro che quello di essere annunciatrice e costruttrice di pace. Lavorando a costruire memoria, per poter esercitare discernimento. Continuando ad interrogare le ombre del passato, anche per poter prefigurare nuove aurore. Non dimenticando mai ciò che è stato, l’orrore del dio che è morto ad Auschwitz, il dolore di un popolo condotto al macello come un agnello sacrificale. Ecco, la sinistra ha bisogno di ritrovare il tempo perduto, nel senso che non può non sentirsi implicata dal cambiamento, non può non cambiare lei stessa, non può vivere galleggiando nella stratosfera dei propri voli passati, la sinistra ha bisogno di ossigeno, ha bisogno di una strumentazione ottica complessa e sofisticata: un po’ telescopio, un po’ microscopio, un po’ caleidoscopio. La sinistra ha bisogno di mettersi in gioco evitando di mitizzare la destra ma cercando piuttosto di conoscerne apparati di potere, sistemi di comunicazione, produzione di simboli e produzione di senso comune. Non pensare che l’invettiva possa surrogare l’analisi dell’avversario, non personalizzare la contesa politica, non demonizzare chi incarna la leadership della destra: sono avvertenze che dovrebbero liberarci dalla tentazione di cavarcela con battute da talk-show. Berlusconi è l’espressione di una radicale riforma del sistema politico e di un capovolgimento della cultura generale del Paese: il cui patriottismo si sposta progressivamente dal terreno storico e civile dell’antifascismo fino a scivolare nel terreno ideologico e melmoso dell’anticomunismo. E il Cavaliere di Arcore incarna anche il mutamento di paradigma di una costituzione materiale che al primato del lavoro (sancito dal primo articolo della Carta costituzionale) sostituisce il primato dell’impresa. Eccola dunque la destra. Quella che ha scelto il profitto mercantile come baricentro della propria strategia, ha teorizzato e quindi praticato la radicale precarizzazione del mercato del lavoro, ha detassato i patrimoni e la ricchezza, ha operato una poderosa opera di riorientamento culturale della società italiana a partire dalla criminalizzazione delle povertà e delle marginalità. La destra che ha avviato una vera bonifica giustizialista contro mendicanti e lavavetri, contro gli stranieri in condizione di clandestinità, contro prostitute e trans, contro i graffitari e contro i centri sociali. “Sorvegliare e punire” sono i verbi della macchina di controllo sociale sugli esuberi della globalizzazione: e già la coazione disciplinare comincia a mirare al cuore di un’intera civiltà del diritto: quella del diritto al lavoro, del diritto di sciopero, del diritto al dissenso. La destra evoca i fantasmi che turbano i sonni del piccolo-borghese planetario: la paura di perdere reddito e sicurezza, la paura di cedere porzioni di sovranità a chi abbiamo perfino nominato “extra-comunitario”. E contro ciò che ci minaccia la tasca o anche semplicemente lo sguardo calerà la scure di quella “dura lex” che ha riti sbrigativi e pene esemplari. Ma per compensare questa torsione di classismo giustizialista la coalizione di governo costruisce, dentro un processo di piccole e grandi riforme, la blindatura garantista della classe dominante: i cui reati svaniranno nei nuovi codici e nei processi verranno prescritti per decadenza dei termini. Il terreno securitario serve a stringere le maglie del controllo sociale e a metabolizzare un progressivo cedimento al lessico razzista e xenofobo. L’omofobia viene alimentata da una porzione delle gerarchie ecclesiastiche, viene esercitata per strada con mirate spedizioni punitive, viene sdoganata persino al festival di Sanremo. L’islamofobia è nella propaganda quotidiana del partito nordista. L’antisemitismo torna a guadagnare la sua ribalta fatta di violenza e vigliaccheria. Una bravata di giovani annoiati può costare la vita ad un povero barbone, che nel sonno dei poveri non percepisce l’umido della benzina con cui lo stanno inzuppando prima di dargli fuoco, prima di bruciare una concreta esistenza, una vita viva, così per gioco, per sentire l’adrenalina che sale mentre quel sacco sporco di umanità strepita e arde. Ma noi viviamo un’epoca in cui si accetta l’idea della social card come se fosse una politica anticiclica: il bancomat della carità serve solo a dire di una propensione compassionevole che deve accompagnare quella ferocia classista di chi al lavoratori del Pubblico impiego o ai metalmeccanici offre spiccioli, riduzione di diritti, rischi di espulsione. E mentre Tremonti ci spiega, con cipiglio accademico, che questa è una crisi finanziaria che si risolve solo con strumenti finanziari, non ci accorgiamo che ci sta dicendo che l’unico keynesismo è quello per i ricchi, ai quali si è tolta persino l’unica tassa “federalista” esistente (cioè l’Ici), mentre gli altri si arrangino. La crisi industriale blocca produzioni in settori decisivi, migliaia di lavoratori vanno in cassa integrazione, c’è un universo intero che rischia un drammatico smottamento, dilaga la paura della povertà: e allora chi paga la crisi, chi paga gli ammortizzatori sociali? E’ chiaro e semplice, può pagare il Sud. Siamo ben dentro la fase storica della rivalsa nordista, tanti amministratori locali del centro-sinistra scavalcano la Lega in quanto a declamazioni in chiave padana, il cervello economico e politico del potere oggi è tutto a Nord, inoltre all’insorgere della “questione settentrionale” il Sud ha cominciato a perdere progressivamente l’uso della parola. La “questione meridionale” si è auto-esiliata in qualche studio specialistico, ha ceduto alla forza narrativa di chi riduce il Mezzogiorno ad una patologia della nazione, il Sud è stato interamente iscritto nella rubrica della politica e del giornalismo nazionali alla voce “Gomorra”. Una caricatura che diviene un alibi. Il Sud dei talenti e dell’indignazione civile, il Sud di Roberto Saviano e dei ragazzi di Locri, il Sud del talento e della legalità, il Sud dell’innovazione e della creatività: tutto questo scompare. Così oggi il governo propone di usare, come provvista finanziaria per pagare il biglietto della crisi, le risorse del Fas e quelle del Fondo sociale europeo: sono le due gambe su cui cammina quasi per intero l’economia meridionale. Sono risorse indispensabili, in aree con disoccupazione a due cifre, anche per resistere all’urto della crisi economica che arriva. Siamo al rovesciamento di un compito generale che le classi dirigenti democratiche si sono sempre affidate: fare dello sviluppo e della modernità del Sud il terreno della compiuta unificazione della storia nazionale, puntare sul Sud come crocevia di civiltà, come congiunzione di Europa e Mediterraneo, come Occidente in seminato di Oriente. La destra propone una gigantesca redistribuzione delle risorse dai territori più poveri a quelli più ricchi, dai ceti sociali più disagiati ai ceti più privilegiati, considerando parassitaria la “spesa sociale” e ridisegnando il Welfare come filantropia di Stato piuttosto che come organizzazione delle protezioni e dei diritti sociali. Per questo noi dobbiamo aprire una questione generale sul futuro del Sud, in una stagione in cui l’esplosione di una crisi morale delle classi dirigenti del centro-sinistra soprattutto nel Mezzogiorno sembra sconsigliare qualunque giudizio equanime ed articolato su un territorio abitato da venti milioni di italiani: dobbiamo portare il Sud all’opposizione delle destre. Dobbiamo aprire una contraddizione ciclopica dentro il PD, che non riesce ad essere il catalizzatore e neppure il protagonista di una opposizione visibile e credibile a Berlusconi: ma non a causa della febbre alta della sua polemica intestina, quanto a causa della sua lettura della fase, del suo giudizio sul governo in carica, della sua strategia emendativa che supplisce al vuoto di idee forti di alternativa al berlusconismo. Il PD oggi è prigioniero del proprio leghismo, non riesce a intendere quale sia la portata dell’assalto alle casse del Sud, non ingaggia su questa una battaglia campale. La rottura dell’unità sindacale e la paurosa deriva governista e corporativa di una parte del sindacato porta il partito veltroniano ad una sorta di neutralità, per la prima volta la Cgil viene lasciata sola anche nello sciopero generale del 12 dicembre, così come nell’aspra contesa per i rinnovi contrattuali. Eppure l’assalto alla Cgil è già cominciato, è lo scalpo più prezioso che la destrapossa desiderare, perché quel sindacato è portatore di un’istanza generale di emancipazione e di giustizia. E questo assedio è organico al tentativo di dare un colpo definitivo alla contrattazione collettiva nazionale, a ciò che ancora protegge un’idea di mondo del lavoro e una storia di civiltà del lavoro. La contro-riforma della scuola e dell’Università sono stati pezzi pregiati di questa opera di sradicamento di una cultura della “res publica” che nel lavoro e nella formazione indicava il “bene comune” fondamentale della democrazia repubblicana. La scuola va re-impacchettata nelle regole di una austerità ottocentesca, con tanto di grembiulini e voti di condotta, va capovolta rispetto alle ambizioni pedagogiche di chi la immagina come palestra di libertà e di pensiero critico, un contro-68 è il programma esplicito della ministra Gelmini. Siamo alla perfetta antitesi di ciò che apprendemmo leggendo la “Lettera ad una professoressa” di don Lorenzo Milani. Qualcuno vuole fondare un’idea degli apparati formativi e una figurazione della società sui pilastri di cemento armato di una sorta di “pedagogia della paura”, una disciplina generale che rimbalza dalla scuola al lavoro, dal tempo libero all’organizzazione urbana: e che si accompagna a quella che potremmo definire educazione tecnica e spirituale alla precarietà. Affinché la scuola educhi alla paura, il lavoro somministri precarietà, la vita privata e quella sociale si srotolino come narrazioni di persone subordinate alla signoria della produzione. A questo disegno ha saputo reagire una nuova generazione, la prima generazione compiutamente esiliata dalla civiltà novecentesca (a partire ad esempio dalla generale aspettativa di una vita lavorativa precaria), un nuovo movimento studentesco ha segnato la società e ha spaventato la politica riuscendo con intelligenza a evitare la tenaglia della violenza e della criminalizzazione: come a dire che proprio lì, in quella fabbrica speciale in cui si fabbrica la riproduzione sociale, proprio nel luogo di apprendimento dei saperi e del sapere sociale, lì cova una contraddizione irriducibile dello sviluppo capitalistico: la contraddizione tra domanda di senso e di libertà, che vive in modo naturale nei processi di scolarizzazione, e la mercificazione della vita e del lavoro. La questione sociale e le giovani generazioni propongono una lettura unitaria dello sviluppo e della crisi della globalizzazione. La rivolta della gioventù greca e la straordinaria mobilitazione contro la riforma pensionistica della destra francese dicono di quanto l’aggressione ai diritti sociali abbia tratti comuni in gran parte del vecchio continente. La lotta dovrebbe, come ci ha insegnato la pratica dei Social Forum, svolgersi su una scena sovra-nazionale. A cominciare dalla messa in campo di proposte di politica anti-recessiva e anti-ciclica che rappresentino anche una forma di demistificazione della natura reale delle manovre anti-crisi di tanti governi, a partire dal nostro: e nel nostro la neo-teologia di Tremonti cerca di interpretare la crisi come una cabala, come un episodio del Caso o del Kaos, o come un epifenomeno del male, e a fronte del marasma economico finanziario propone un ripristino dall’alto dei valori tradizionali. Insomma, solo “Dio, Patria e famiglia” ci salveranno, e il Tremonti ratzingeriano appare come l’ultimo epidono della saga western di Bush. Noi dobbiamo interrogare la destra e il Paese sulla necessità strategica di un “Piano per il lavoro”, un progetto ambizioso e straordinario di implementazione dell’occupazione puntando sulla promozione della qualità ambientale, a partire dalle bonifiche fino al disinquinamento dei corsi d’acqua, dalla protezione delle coste e delle falde fino alla raccolta differenziata spinta dei rifiuti urbani. E ancora puntando sulle energie alternative e sulla produzione di quei beni immateriali, nella cultura nella comunicazione e nei servizi, che possono consentirci di coniugare ricchezza economica e ricchezza sociale, ricchezza delle quantità e ricchezza delle qualità, incrementi di sviluppo e diffusione del benessere sociale. Ma dobbiamo sapere che la destra vuole usare la crisi economica come alibi per rinviare i conti con il carattere dirimente e ultimativo della crisi ambientale. Qui dobbiamo reagire, ora è il momento di una riconversione culturale che deve investire le forme del produrre, del consumare, del vivere associato. Ora è il momento di andare all’assalto dei veleni che assediano le nostre vite: dalle polveri sottili che abitano anche i polmoni dei nostri bambini al mercurio che nuota nei nostri mari, dall’amianto che continua a uccidere di mesotelioma pleurico fino a quella diossina che la proprio la Puglia, che è la mia terra, ha voluto con una rivoluzionaria legge regionale sottoporre a vincoli seri e scientificamente fondati.
Abbiamo dinanzi diversi passaggi elettorali. Il primo dei quali riguarda la Sardegna, regione nella quale i nostri compagni hanno saputo accompagnare con intelligenza e stimolare in modo creativo l’esperienza innovativa della presidenza Soru: che ha interpretato l’autonomismo sardo come una prospettiva europea e non come ripiegamento e chiusura, e che ha difeso la bellezza e la ricchezza della sua natura e dei suoi delicatissimi eco-sistemi dando una lezione di dignità e di moralità ad un Paese che ha fatto anche del patrimonio dello Stato una S.P.A. Nelle città e nelle province in cui si vota è necessario sviluppare il massimo sforzo unitario della sinistra, di una nuova sinistra capace di guardare anche le radici di una crisi delle grandi città che è anche crisi nei nostri modelli amministrativi. Il riformismo municipale mostra le corde, si tratta di tornare ad avere una lettura critica dello sviluppo cittadino e metropolitano, ma poi si tratta di realizzare un progetto globale di riqualificazione delle periferie e di rigenerazione urbana. Ma nel governo dei territori deve tornare con forza, come sfida della democrazia partecipata e della cittadinanza attiva, la “questione morale”: depurata dalle scorie della giustizia-spettacolo e da quella retorica qualunquista che nella generalizzazione della denuncia finisce per mortificare gli onesti piuttosto che stigmatizzare i corrotti, bonificata da pulsioni da far west, essa vive come rottura della barriera architettonica e sociale che separa, tavolta in modo feroce, i pubblici poteri dalle domande della vita quotidiana. Vive di trasparenza di tutti i procedimenti amministrativi, vive di drastica semplificazione burocratica, vive di circolazione delle informazioni, vive di controllo organizzato sulle decisioni di governo, vive di netta separazione tra politica e affari, vive di responsabilità condivise e di qualità delle classi dirigenti. E poi c’è la consultazione per il rinnovo del Parlamento Europeo: innanzitutto una occasione per fare il punto sul processo di allargamento dell’Unione, per tracciare un bilancio sul ruolo politico dell’Europa nello scacchiere internazionale, ma anche una occasione decisiva per sottolineare gli impegni mancati, le pagine bianche, i peccati di omissione di una Europa incapace di autonomia dagli Stati Uniti e povera di iniziativa politico-diplomatica come si è visto nei giorni della guerra a Gaza. Per noi anche uno stimolo a rinsaldare la presenza dentro “Sinistra europea” e forse la costruzione di una tappa nel processo di avvicinamento alla costituente del nuovo soggetto della sinistra. Che ci sia, in questa contesa, una sinistra unitaria, un pezzo di un cammino assai più lungo e complesso, può essere un fatto nuovo per il popolo della sinistra: naturalmente sappiamo che continua il lavoro bipartisan per introdurre un robusto sbarramento elettorale: serve a compiere il lavoro sporco, è la proiezione di quello sbarramento sociale che vuole marginalizzare le culture critiche e le alternative di società. A condizione che non sia la confezione di un partitino, ma solo un passaggio in una traiettoria di accumulo di forze e di esperienze. A condizione che non appaia, così come fu per l’arcobaleno, un patto di vertice e un manufatto del politicismo dei ceti politici. Serve che tutti e tutte ci facciamo carico, nel dare avvio al movimento per la sinistra, di una domanda di partecipazione diretta alle decisioni della politica, della nostra politica. La democrazia per noi non può essere né apparire una questione procedurale. Proviamo a sfidare noi stessi, a dire che nella rete che stiamo per tessere varrà sempre e comunque il principio di “una testa un voto”, che le primarie possono essere la regola e non l’eccezione della vita interna, che si vota non per finta ma per davvero. E che la democrazia è attraversamento dei territori, radicamento nei territorio, interrelazioni tra territori. Io penso ad una sinistra federale, a cantieri aperti, plurali, curiosi, includenti, che abitino nei territori. Penso ad una sinistra capace di presentarsi come una profezia laica, l’annuncio di tempi nuovi. Obama ha già cambiato il mondo, perché ha introdotto nell’immagine di politica che comunica, la suggestione ontologica del cambiamento, perché nel più ufficiale dei suoi discorsi si è sentito il congedo liberatorio dall’epoca dell’America texana delle sette evangeliche e dei petrolieri, dei gangster della speculazione borsistica e della bolla immobiliare, perché ha nominato la violenza razzista del mondo in cui è nato e cresciuto, perché ha esibito con naturalezza le prerogative di una democrazia che rifiuta qualsiasi torsione confessionale, perché ha delineato un intervento pubblico che mira a salvare l’economia reale piuttosto che la finanza creativa che ha ubriacato il mondo. Insomma, che la politica torni a essere pensiero, conoscenza, inchiesta, passione condivisa, reciproco affidamento, indignazione civile, prefigurazione di un mondo liberato.
Io le cose che ho detto, con sincerità e poca organicità, le ho dette per offrire una spiegazione del mio congedo dal mio partito. Non provo acrimonia verso Ferrero e il suo gruppo dirigente. Sono sereno perché faccio ciò che sento sia giusto fare. Rifondazione è stata la mia casa e questo addio non è un partire indolore. Voglio augurare ogni successo al mio ex partito. E a noi, a quelli di noi che condivideranno la mia scelta, voglio dire che non dobbiamo sentirci avversari di Rifondazione. E soprattutto ai compagni e alle compagne della nostra area che scelgono di continuare la propria lotta dentro al partito voglio esprimere gratitudine: per aver condiviso una bella battaglia, e perché sono certo che continueranno a battersi perché nasca una sinistra nuova. Una sinistra del lavoro e delle libertà. Che ingaggi un molecolare corpo a corpo contro la paura e contro la solitudine. Che ritrovi l’ago e il filo con cui cucire nuovi legami sociali, pezzi di comunità, movimenti che fanno politica coinvolgendo e accogliendo. Una politica che allunga i propri pensieri oltre lo spazio del presente. Una politica che ci aiuti a spartire il dolore e la gioia, che ci rispetti nella nostra fragilità e nella nostra unicità, che non ci trasformi in giudici sommari e in boia delle diversità, che non sia pensata e gestita al maschile, che non accetti barriere gerarchiche, che non escluda chi è diversamente abile, che non giudichi nessuno per la sua fede o per il suo orientamento sessuale, che non cerchi nemici. Una politica gentile, capace di ascoltare l’avversario, forte solo delle proprie idee e non forte di servizi d’ordine, una politica che cerca le persone in carne e ossa piuttosto che cercare il pubblico. Una politica che apre la questione della libertà in ogni millimetro di organizzazione sociale, a partire dal luogo di lavoro. Una politica che annuncia non il nostro primato ideologico ma il nostro amore per la terra e per la vita, che annuncia speranza, che si fa popolo, che ci dà il coraggio di osare una nuova avventura, un nuovo inizio, un altro partire. Auguri a tutti e a tutte.”
lunedì 26 gennaio 2009
Vendola: "Un nuovo inizio, un nuovo partire".
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