venerdì 30 gennaio 2009

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E' on-line l'intervento conclusivo di Nichi Vendola al Seminario nazionale di Rifondazione per la Sinistra - 24 e 25 gennaio - a Chianciano.

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Intervento conclusivo di Nichi Vendola - 25 gennaio - Chianciano.

E dunque, compagne e compagni, abbiamo aperto la porta della nostra casa, e qui, a Chianciano, abbiamo deciso di uscire fuori, di cominciare non un partito, di cominciare un partire. Abbiamo deciso di cominciare un nuovo cammino insieme. Chiedo agli operatori dell’informazione attenzione su questo punto: il simbolo che è qui, su questo podio, oggi verrà consegnato agli archivi. È stato il simbolo di questi sei mesi, del tentativo di costruire un’area. Oggi dobbiamo pensare a simboli da costruire insieme e che possano parlare di una speranza e di un processo molto più largo di noi... Segue nel primo post.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Conclusioni di Nichi Vendola al seminario del Movimento per la Sinistra, Chianciano 24-25 gennaio 2009


E dunque, compagne e compagni, abbiamo aperto la porta della nostra casa, e qui, a Chianciano, abbiamo deciso di uscire fuori, di cominciare non un partito, di cominciare un partire. Abbiamo deciso di cominciare un nuovo cammino insieme. Chiedo agli operatori dell’informazione attenzione su questo punto: il simbolo che è qui, su questo podio, oggi verrà consegnato agli archivi. È stato il simbolo di questi sei mesi, del tentativo di costruire un’area.
Oggi dobbiamo pensare a simboli da costruire insieme e che possano parlare di una speranza e di un processo molto più largo di noi. Anch’io sono venuto a Chianciano con tante paure, la paura che qui potesse depositarsi un insieme di rancori, di risentimenti, che a Chianciano potessimo venire ciascuno con il proprio rendiconto, ciascuno con il proprio feticcio polemico. Devo dire che sono stati due giorni di discussione buona, intensa, vera. Non una fiction, ma un dibattito che aveva lo sguardo proteso sui problemi del paese, un dibattito consapevole e carico di inquietudine e di dubbi. Benvenuti compagni in un cammino in cui i dubbi e le inquietudini non saranno mai messi al bando. Se pensate che c’è un leader che, come compito primario, ha quello di esorcizzare i dubbi e le inquietudini, compagni vi ricrederete. Dobbiamo, non solo per le insufficienze ed i limiti di chi vi sta parlando, ricominciare con il costruire proprio i rudimenti di una organizzazione collettiva, di una attenzione collettiva, di una traccia collettiva, di un sapere collettivo.
Dobbiamo provare e riprovare qui, su questo punto, a rimettere in piedi insieme un’idea della convivenza, una lettura dei processi del mondo.
Vedi caro Paolo Ferrero, com’è sbrigativo e banale quel giudizio con cui ci congedi, senza rinunciare al gesto ipocrita di dire, come la canzone francese, “non andare via”? Intanto perché la canzone francese aveva un ritornello insistito, mentre io me lo sono sentito dire proprio quand’ero già uscito di casa, “non andare via”.
Non c’è mai stata un’interlocuzione su cosa stava diventando questo partito, questa comunità. Ma dire usciamo per andare a destra, usciamo per essere una corrente esterna del Partito democratico, serve semplicemente per acquietarsi, per trattenere qualcuno: serve a fini di battaglia politica interna.
Se c’è una cosa di cui l’attuale Partito democratico non ha la benché minima paura è una Rifondazione comunista come quella gestita da Paolo Ferrero. Perché il moderatismo non si sente incalzato dal settarismo, anzi si sente confermato. Il moderatismo non teme la predica dei dogmatici, il moderatismo non teme la politica di un antagonismo delle chiacchiere, il moderatismo teme la radicalità quando è in grado di diventare processo sociale, inchiesta, indagine, quando è analisi, quando è lotta politica esplicita, quando è fare politica e dare senso alle persone. Quando cioè la radicalità è andare alla radice delle cose, non sublimare la realtà dentro una retorica del comunismo come avvento, del comunismo come identità, autoreferenziale, ossessionata dalle proprie storie e dal bisogno di esistere.
I comunisti ci hanno insegnato che i partiti, i sindacati, le organizzazione della società, non sono delle mummie, sono dei corpi viventi, e che dentro quei corpi ci sono storie politiche, ideologiche, intellettuali, umane. Ci sono le persone. Pensate al Togliatti che alla fine del fascismo si rivolge ai giovani che erano stati fascisti. Pensate a chi ha della politica l’idea di un grimaldello che forza consuetudini e pigrizie, che rompe muri. Non la politica come statica visione della realtà. Chi sei tu? Il notaio di quanto è moderato il Partito democratico. E poi? E poi basta: il notaio di quanto è moderato il Partito democratico. E il Partito democratico che cos’è? È un cumulo di contraddizioni e di storie che sono bisognose socialmente di sinistra, e che lì cercano, con grande e crescente frustrazione, una risposta che non c’è. E guardare a quella domanda significa vendersi l’anima o significa fare politica?
Oggi al Partito democratico dovremmo porre una questione che riguarda la sua collocazione sul tema fondamentale, sul tema che è la ragione stessa della sinistra, sul tema che costituisce una cartina tornasole della qualità della nostra organizzazione sociale, sul tema che allude ad un’idea di civiltà: il lavoro. Dobbiamo porre al Partito democratico un problema: la sua neutralità rispetto al conflitto in atto.
La Cgil, nei sindacati della funzione pubblica e dei metalmeccanici, ha convocato lo sciopero generale del 13 febbraio: è il più importante appuntamento politico. Politico nel senso pieno, politico nel senso che parla della polis, che parla di come è organizzata la città in quei luoghi che qualcuno vorrebbe nicchie tenebrose, che sono i luoghi di lavoro. Si può essere neutrali ed indifferenti e volgere lo sguardo dall’altra parte, o non sapere che la lotta contro la destra e la sua egemonia classista è lì, il 13 febbraio, con la CGIL, con un’idea del contratto, con un’idea del lavoro?
È una narrazione intera quella che si tende a stracciare con il contratto separato, è la narrazione di un lavoro che progressivamente si emancipò dalle proprie infinite solitudini. Pensate: i possessori dei mezzi di produzione, i grandi poteri protetti dal sistema informativo di cui essi sono proprietari, santificati a destra e a sinistra, le grandi proprietà, il sistema d’impresa come cattedra pontificale di riorganizzazione della società; e l’individuo singolo di fronte al mercato, al suo carattere globale, l’individuo con il suo balbettio, con la sua parola permanentemente ferita e con la sua paura, con la sua ricattabilità. I contratti individuali sono il tentativo di stracciare il racconto novecentesco del mondo del lavoro, che fu il racconto del lavoro che si organizzò come un mondo, cioè che si organizzò come un punto di vista, che seppe individuare nella frammentazione, nella polverizzazione, nella individualizzazione, l’elemento strategico dell’avversario che voleva che i lavoratori, ciascuno dentro il proprio spigolo, potessero non raccontare quel racconto proletario che nelle campagne del sud e nelle fabbriche del nord fece di quella povera gente un grande soggetto della democrazia e dell’emancipazione sociale nel nostro paese.
Il lavoro come problema della qualità di un’organizzazione sociale, il lavoro che fonda il carattere democratico della Repubblica, il lavoro che non è merce povera e sporca, che non è grezza dimensione biologica, ma il lavoro che è racconto sociale. E dentro al lavoro, la lotta per la libertà. Non fuori dal lavoro, dentro al lavoro la lotta per la dignità, la lotta per essere uomo e donna, per essere cittadino dentro al processo produttivo. Per questo noi non fondiamo un partito, cominciamo un partire. E innanzi tutto nel nostro cammino guardiamo alla Cgil, alla sua lotta, al suo coraggio. Conoscendo il terreno anche contraddittorio delle vicende sindacali dell’ultimo ventennio, noi saremo dentro lo sciopero, saremo con i compagni del sindacato, saremo lì per affermare un’idea di lavoro: quell’idea di lavoro coincide con le ragioni sociali della sinistra. Non vale immaginare che il mondo del lavoro debba soltanto attendere il tempo in cui possa allungarsi la lista dei traditori. Noi abbiamo bisogno non di andare davanti ai cancelli di una fabbrica pensando che il problema siano i decibel delle nostre ugole e siano anche la veemenza un po’ plebea ed un po’ populista dei nostri slogan. Quei lavoratori hanno bisogno di una trama credibile di riorganizzazione del corpo sociale, del corpo sindacale, del corpo politico: hanno bisogno di avere gli strumenti per ridarsi coraggio. Non è facendo gli Agit-Prop, ma costruendo una prospettiva politica, che si dà coraggio al mondo del lavoro.
Con questo mondo del lavoro e con il paese che ha paura dobbiamo interloquire con le forza di chi è capace di togliere la maschera al governo delle destre, perché non lo fa nessuno. Dobbiamo essere capaci di indicare la mistificazione in cui il tremontismo cerca di portare il nostro paese. Cioè, come dicevo nella relazione introduttiva, l’idea che la crisi sia come un fenomeno meteorologico. Ma chi la porta la crisi, forse le cicogne? La crisi è cresciuta dentro la pancia della destra mondiale, da Regan a Bush, dentro un’idea della finanziarizzazione dell’economia mondiale, dentro una forma specifica di costruzione della globalizzazione. Ed invece Tremonti dice che è una crisi finanziaria ed intende dire che è una crisi la cui decifrabilità è un problema tecnico e le cui risposte sono un problema tecnico. La destra ne vuole approfittare, vuole usare la crisi per andare ancora più avanti sullo stesso terreno che la crisi ha prodotto. La destra vuole usare la crisi per esempio per costruire la soluzione finale del mondo del lavoro, appunto il contratto individuale, cioè il contrario di ciò che, se interroghi le radici della crisi e della recessione, dovresti fare: Dovresti dare più potere, più risorse, più speranza, più coesione, più forza al mondo del lavoro: E invece tu gli metti la museruola. Cerchi di neutralizzare tutte le culture critiche, cerchi d’impedire l’esercizio di parola a chi ha pensieri che non siano stesi sulla celebrazione del pensiero unico del mercato. Per questo t’interessa ragionare anche dello sbarramento elettorale, perché sia un paese narcotizzato, perché sia un paese spento.
E contemporaneamente la destra usa la crisi per dire che non è questo il tempo per affrontare i nodi ormai al pettine della crisi ambientale. Il ministro Prestigiacomo, ma tutto il governo Berlusconi, è stato il protagonista dell’attacco a quel documento timido ma indispensabile che è il protocollo di Kyoto. Noi in Europa, alleati di ciò che recentemente è diventato europeo essendosi emancipato dalla cortina di ferro, alleandoci con quella porzione di Europa, abbiamo messo in discussione la necessità di fare i conti con le emissioni di gas serra in atmosfera. C’è la crisi, quindi la crisi economico-finanziaria mi mette le bende sugli occhi per non vedere la crisi ambientale, e l’operazione è importante perché è il tentativo di separare un pezzo dall’altro per non accorgersi che il mondo sta crepando, a causa delle stesse ragioni, di inquinamento e di bolle immobiliari e speculative; sta crepando della follia del capitale in questa forma specifica della vicenda storica. E cosa invece dovremmo fare? Badate compagni, non si tratta mica di cavarcela con l’idea che abbiamo bisogno di uno straccio di carta, che abbiamo bisogno poi noi, se andiamo in un talk-show, di dire le nostre formulette magiche. No compagni. Noi abbiamo bisogno di costruire un’idea sociale e politica credibile di risposta alla crisi economica e finanziaria. Abbiamo la necessità di lanciare un’idea di un nuovo New Deal.
Noi dobbiamo parlare al paese per dire che oggi o siamo in grado di mettere in campo una idea del lavoro, un piano straordinario del lavoro - pensate al mezzogiorno, che ha ancora disoccupazione a due cifre, ma pensate a che cosa sarà l’ondata di licenziamenti, di cassa integrazione soprattutto nel nord - l’idea del lavoro come il principale elemento della coesione sociale. Quando diciamo “questione ambientale”, faccio un esempio soltanto, ci riferiamo ad un piano straordinario di lavori, legato all’organizzazione moderna del ciclo dei rifiuti. Abbiamo visto che cosa sia il gassificatore di Malagrotta e quali siano gli interessi poderosi che hanno da un lato consentito alle ecomafie di svilupparsi e dall’altro a porzioni rilevanti del sistema d’impresa di arricchirsi, ritardando le risposte ai problemi del paese. Pensate cosa può essere in tutta Italia un piano che consenta il porta a porta nella raccolta differenziata, che allude mica soltanto al problema di chi smaltirà i rifiuti di una società dell’affluenza, di una società che è costruita quasi sull’idea del rifiuto, e non del riciclo. C’era un bellissimo motto ebraico che dice così: “Il diavolo brucia, Dio recupera”. La cultura del recupero è importante.
Pensate cosa possa essere un piano straordinario per il riassetto idrogeologico dell’Italia: noi giù senz’acqua e quando arriva allagati e affogati, ma senz’acqua perché in tutto il mediterraneo sta avanzando il deserto. E su, diciamo, a giocare la finzione che il Po sia un fiume e non una gigantesca discarica che propone il principale problema di degrado ambientale del paese.
O pensate a cosa può significare il tema delle energie rinnovabili, delle energie alternative, non come un segmento che si aggiunge a tutto il resto, ma come un globale ripensamento delle forme della mobilità urbana, delle forme dell’urbanizzazione, pensate che significa riqualificare le periferie inglobando il tema, la chance produttiva, delle energie rinnovabili. Un grande piano straordinario per il lavoro che possa rimettere a tema le peculiarità del nostro paese. L’ultima volta che ne abbiamo parlato fu sempre a causa di Tremonti, quando dal suo cilindro tirò fuori la Patrimonio dello Stato Spa, l’idea che si potesse patrimonializzare e mercificare la costa, le isole, i monumenti, i palazzi storici. Ma noi lì abbiamo la possibilità di affermare, se posso dire così, egemonicamente un’idea alternativa dello sviluppo. Se tu attraverso le attività intellettuali, il cinema, l’industria degli audiovisivi, per esempio, o attraverso il tema della bellezza recuperi un’idea non di una società dell’idillio, ma recuperi un’altra idea delle attività produttive, recuperi un’altra idea dello sviluppo, tu entri dentro la contesa non solo in modo ideologico, ma proponendo uno scardinamento pratico dell’insieme dei miti che ci hanno portato a un punto di collasso, a un punto di difficoltà, ad un vicolo cieco dal punto di vista dell’economia.
Io credo, compagni e compagne, che noi dobbiamo caratterizzarci per una lotta generale ideale contro le solitudini. Se io dovessi dire qual è il precipitato, il prodotto finito della società della paura, direi che è l’enfatizzazione di una condizione generalizzata di solitudine. Pensavo a questa parola quando ascoltavo l’intervento di Ali Rashid, e vi devo dire la verità, pensavo alla sua solitudine, di questo nostro meraviglioso compagno che vive con noi e ha il cuore nella sua martoriata terra di Palestina e pensavo alla solitudine dei Palestinesi, pensavo alla solitudine di chi è in gabbia lì a Gaza, di chi si è sentito come in trappola, di chi vive nella condizione di sentirsi di non avere scampo. Qualcuno di noi, ricorderete, è rimasto molto segnato nel luglio del 2001 a Genova, da questa vicenda della psicologia individuale e collettiva, dall’aver vissuto per due giorni l’angoscia di sentirsi sempre in trappola, di non avere una via di fuga. Pensate che cos’è la solitudine di chi è rimasto là e non ha neanche la percezione di una indignazione che nel pianeta organizza mobilitazioni, perché anche quello è entrato in crisi, anche quello è il terreno della nostra sconfitta. Pensate, compagne e compagni, alla solitudine del sud, che è duplice, triplice, quadruplice, molteplice. Il sud che si è rassegnato al suo silenzio. Non ci voleva molto per urlare nei giorni della monnezza che assediava Napoli e la Campania, per ricordare che si trattava in gran parte di monnezza del nord, di monnezza della Padania; e che molte regioni del nord, non sto naturalmente parlando del popolo del nord, sto parlando delle grandi imprese del nord, chiudevano il loro ciclo dei rifiuti preferendo il sud perché le discariche al sud, quelle lecite e soprattutto quelle illecite, sono assai vantaggiose. E noi abbiamo subito una narrazione che quasi suggeriva che ci debba essere un’attitudine etnica nella proliferazione dei rifiuti, che c’è forse un’idea antropologico-urbana del rifiuto che assedia la città, di quella scena, di quella sequenza di scene che ricordavano Ginger e Fred di Fellini. E la solitudine del sud in alcune aree è una solitudine che va indagata non con categorie astratte. La solitudine della Campania riguarda l’implosione di una forma dello sviluppo urbano, la città-regione, la megalopoli, l’idea che i nomi delle città non segnano volti urbani, che non ci sono più confini, che c’è un unicum che costituisce una gigantesca megalopoli, e la vita è dentro gli interstizi e la camorra è il prodotto anche degli interstizi. Vedete, la camorra e le mafie, si combattono naturalmente con i mezzi dell’investigazione, dell’intelligenza dei fenomeni criminali che si evolvono, si combatte con la repressione, ma si combatte, abbiamo sempre detto, con i processi di bonifica sociale; e quei processi devono partire dall’idea dell’abitare, perché se le mafie sono egemoniche vuol dire che loro abitano territori in cui non abita lo spirito pubblico e la democrazia, e allora vanno ripensati quei territori, va ripensata la forma specifica di crescita urbana.
La solitudine degli operai raddoppia quando tu pensi di poterla facilmente convocare in un consesso rivoluzionario. Paolo quando è andato appena eletto segretario del partito all’Ilva di Taranto ha avuto molti fischi, molte contestazioni, nessuna interlocuzione vera. Mica lo dico con gioia, ma lo sapevo. Non è che vai lì e più rendi gigantografica la falce e martello e più quelli sono pronti ad accoglierti. Per tornare lì, o per stare lì, o devi sapere com’è cambiata la fabbrica, ed è cambiata esattamente com’è cambiato il mondo. Devi sapere che non ci sono più le vecchie tute blu, che non c’è più Cipputi, che non c’è più la vecchia classe operaia, che era una scuola per la giovane classe operaia. Devi sapere che una parte rilevante della produzione ormai la fa il subappalto, e che nel subappalto i contratti di lavoro sono molto spesso a tempo determinato, con giovani lavoratori che non fanno formazione. E devi sapere che chi entra in una fabbrica che è più grande della città, perché non è Taranto che contiene l’Ilva ma è l’Ilva che contiene Taranto, non ha coscienza delle trappole e dei rischi anche mortali. L’Inps ci dà un dato che è importante, sul quale riflettere: gli incidenti sul lavoro tendenzialmente, sia pur in percentuale minima, diminuiscono, ma aumentano molto tra i lavoratori immigrati e tra i lavoratori precari. Cioè leggiamo all’interno di questa statistica, per capire dove si ricolloca un’idea del lavoro come rischio della vita.
La solitudine degli operai quelli che in questi giorni, in questi mesi, accendono la TV col batticuore. Quelli che cercano di capire che succede alla General Motors o alla Crysler, che sentono una cosa così lontana che è precipitata dentro le case loro, che può significare che improvvisamente non avranno più la possibilità di pagare la rata del mutuo, che pure già era stata frutto di un esercizio acrobatico. Quella solitudine non ha bisogno di una retorica, ha bisogno di una politica. Ha bisogno di forza politica, questo intendo dire.
E pensate alla solitudine degli immigrati, che vivono in una società in cui ormai siamo assuefatti a una pratica della comunicazione che li riduce soltanto ad un problema di ordine pubblico, che li presenta come dei fantasmi, il fantasma del pianerottolo, che usa a piene mani ogni tipo di stereotipo, dentro quell’antica attitudine di cui abbiamo già parlato. Siamo assuefatti alla costruzione di un’immagine deviante di tutto ciò che è povertà: la povertà minaccia questo mondo, la povertà è una colpa, la povertà è un reato. La povertà più povera, quella di non avere i documenti e di venire da chissà dove, non provoca un tentativo di interlocuzione. Cioè non ci pone un problema un essere umano senza documenti, senza carte, ma ci provoca un impulso securitario, gli metteremo le manette. Che volete che sia il falso in bilancio o le gigantesche truffe bancarie, rispetto al reato di clandestinità.
E intanto spieghi al popolo che essere clandestino non significa essere vittima della clandestinità, significa essere autore della clandestinità, è come spiegare al popolo che essere povero non significa essere vittima della povertà, ma significa essere autore, colpevole della povertà. E’ uno slittamento semantico, ideologico e politico di grande livello, che torna nella storia della società europea e delle società mondiali, in tutte le epoche di transizione: il processo di criminalizzazione della povertà. E non è sufficiente che a questo reagisca la curia di Milano: ci sono le grandi autorità morali del paese, quelli che sono intenti a certificare se c’è vita nel primo attimo di formazione di un embrione, e invece non si accorgono dello scempio di vita che c’è qui in occidente, in Europa ed in Italia. Ed è un silenzio imbarazzante. E non basta la Caritas, che è l’organismo più attento allo studio e alla conoscenza dei fenomeni migratori e che organizza su tutto il territorio delle reti di accoglienza e di solidarietà. Non basta la Caritas a denunciare la profonda immoralità e il carattere giuridicamente abnorme della tassazione dei permessi di soggiorno. Ci vorrebbero voci più autorevoli, voci forse impegnate a sdoganare ciò che non va sdoganato, quelle altre voci che non si vergognano di replicare gli stilemi dell’antisemitismo e del pregiudizio anti ebraico.
E la solitudine… scusate ne parlo così perché vorrei che intendessimo che sul terreno della riforma del welfare tutte le figure sociali, di cui spesso noi ci occupiamo, sono destinate a scivolare in un altra collocazione. La solitudine è una persona diversamente abile dentro il paradigma di un welfare che è semplicemente la social card, cioè neanche un’elemosina, ma un’ulteriore pubblicità del mondo del bancomat. Un ulteriore tentativo di predicazione ideologica, di costruzione ideologica del mondo. Ma una persona diversamente abile oggi ha di fronte un mondo che avrà pure prodotto le sue progressioni dal punto di vista del vocabolario, se per esempio lo chiamiamo diversamente abile o la chiamiamo diversamente abile, ma non sarà più il soggetto che chiede valore e il soggetto a cui diamo valore, cioè indipendenza, autosufficienza, strumenti di libertà, strumenti padronanza della propria vita; sarà il terminale muto di una qualche forma di pietas dello stato compassionevole delle destre. Questa è un’offesa alla dignità degli esseri umani, su cui dobbiamo costruire una campagna, su cui dobbiamo alzare una voce. La cittadinanza che ingloba le barriere architettoniche è una cittadinanza violenta e inaccettabile. Noi siamo contro, siamo per rompere la città nemica, la città che separa, la città che interdice il diritto alla mobilità e all’esistenza. E ancora, la solitudine di chi prima doveva semplicemente uscire da un mondo confinato, da un apartheid.
Ho pensato molte volte, anche a proposito delle polemiche sull’isola dei famosi, alla vita di Wladimir, alla vita, che io conosco, di uno che scappa da Foggia, di uno che si sente braccato come un’animale a causa delle propri scelte, della propria vita, del proprio cuore, del proprio corpo. E come oggi invece siano state sdoganate formule e marchingegni linguistico-politici che legittimano nuovamente una esibita, oscena, grezza, greve, discriminazione nei confronti delle paure, nei confronti delle persone che devono vivere braccati dalla paura, dalla paura di essere insultato, dalla paura di essere oggetto di una violenza. La solitudine di un trans, ora che nelle opere di igiene pubblica si bonificano i marciapiedi dalle prostitute, si bonificano i marciapiedi dai trans e diventano figurine. Naturalmente la bonifica, diciamo così, è solo uno spettacolo. Ma diventano figurine di una marginalità spaventevole a cui noi guardiamo con l’occhio di quelli che cercano i capri espiatori per i nostri riti di purificazione, di piccoli borghesi di questo mondo dell’insensatezza e della volgarità. Pensavo quando sono stato a Bogotà ed ho imparato che nove bambini su dieci, prima dei dieci anni di vita, in quella città hanno visto un omicidio. E pensavo che il gioco delle bande dei ragazzini era quello la sera di andare ad uccidere, a sparare ai trans. E mi ricordo le storie di violenza dei viados colombiani, qui, della loro straordinaria esercitazione ai riti violenti della sopravvivenza. E’ il genere umano, che ha mille volti, mille storie, mille solitudini che dobbiamo saper ascoltare, interpretare, per costruire speranza. Quando parlo di questo, vedete, di cosa sto parlando? Parlo del terreno di unificazione dei diritti civili e dei diritti sociali, perché una società in cui regredisce la stessa nozione di giustizia è una società più feroce, è una società che ha i metodi spicci, è una società che non ha il tempo per capire che il diritto di quello lì è diverso dal tuo perché lì sta giocando la sua soggettività, la sua singolarità, la sua unicità, la sua fragilità: è la sua delicatezza che dovremmo attraversare conoscitivamente. Per questo la lotta della Sinistra contro la paura è lotta per dare coraggio alle persone, è lotta contro le solitudini, è lotta contro le solitudini che sono davvero il portato esistenziale di un mondo scisso e violento.
Noi dobbiamo essere la sinistra delle libertà.
Piero Sansonetti ha detto delle parole molto importanti. Questo ci ha offeso della vicenda di Liberazione, proprio lo strappo rispetto ad una storia, ad una pratica, ad un’idea che avevamo guadagnato. E che mica l’avevamo guadagnata così: veniva da lontano. Ne ho parlato anche ieri di cos’era l’Unità del dopoguerra, cos’è stata: il confronto con l’intellettualità, affidare le pagine culturali a Calvino o a Pavese, curare la cronaca sportiva o la cronaca cinematografica. Cioè immaginare che un giornale è un luogo che ti torna utile non perché intruppa a una leva militare, ma perché dà stimoli di libertà e di conoscenza, perché è una fucina delle idee, perché organizza curiosità. Onestamente, come si fa ad essere comunisti e a non essere curiosi? Perché ci sono delle cose che è meglio che noi non sappiamo e non vediamo perché siamo comunisti? E che comunisti siamo? O invece dobbiamo essere proprio mossi dalla curiosità? Nulla di quello che esiste ci deve spaventare al punto da autocensurarci. Anche lo spavento è importante. Dobbiamo andare a vedere là dietro che cosa c’è, in quel cono d’ombra. Dobbiamo andare a vedere sotto quel terreno, dobbiamo conoscere. La libertà oggi può essere davvero l’oggetto di una contesa pratica ed ideale.
Quelli che stanno governando, hanno fatto della casa delle libertà all’inizio la fabbrica delle loro idee, dei loro slogan, delle loro parole chiave. E non c’è dubbio che parlavano di una certa idea della libertà: è la libertà che coincide con i valori del liberismo. È la libertà di scegliersi i prodotti in un mondo ridotto a misura di market. È una libertà che è una predica che riguarda una sorta di materia gassosa che si libera per aria. È una libertà che mai incrocia i temi fondamentali, i nodi fondamentali dell’organizzazione della società e della vita. Io se abito nella periferia di Cagliari, nella periferia di Catania, in un immondo interland campano, e se abito lì in una condizione sociale di esclusione ho una libertà rudimentale, ho una libertà povera. Io se attraversando i cancelli della fabbrica ed entro in una sorta di giurisdizione extra territoriale, vivo una libertà part-time. Forse ho la libertà del tempo libero, che significa che poi nel lavoro o negli altri luoghi il tempo non è libero. E allora il tema della libertà è il tema della liberazione del tempo a partire dal lavoro, dalla città, dai ghetti in cui le persone vengono confinate. Libertà. E libertà è tenere conto che il genere umano è due e non è uno, cioè una libertà che cerchi di assumere dentro di sé, con grande buona educazione, la libertà femminile, una libertà che non faccia i conti col fatto che i codici della libertà spesso sono stati costruiti a partire dalla mutilazione della libertà femminile. Una libertà che non abbia il coraggio di tremare, sentendo l’avanzare della libertà femminile e il bisogno di ridefinire forme di espressione della libertà e di mettere in causa il rapporta tra libertà e potere. Ecco compagni, sono temi non solo teorici, sono temi pratici.
E noi il garantismo non possiamo pensare che debba essere un oggettino della polemica, del teatrino della politica. Le garanzie di libertà sono lo scudo di una forma della civiltà, su questo piano, noi, se non sentiamo l’offesa al garantismo sempre, non siamo credibili quando attacchiamo la volgarità antigiuridica dei Cpt. Noi dobbiamo assumere questa religione civile della libertà e praticarla come il principale orizzonte di società e di civiltà sempre e comunque, senza se e senza ma, quando riguarda Guantanamo o quando riguarda Cuba, quando riguarda tutto: lì non ci sono distinguo e non ci sono possibilità di derogare!
E dunque, cominciamo, partiamo, facciamo questo cammino e buttiamoci anche nelle vicende elettorali. Compagni e compagne, anche qui: costruiamo con saggezza e con sentimento di reciproco affidamento i passi che dobbiamo fare insieme. Non ci sia una delega, ci sia una condivisione. E quello che dobbiamo far vincere davvero è se la nostra scelta elettorale, per esempio parlo delle città e delle province, oltre che della regione in cui si vota, sia una scelta che sta tutta dentro questa parola che è così misera “scissione” o se la nostra scelta riguarda invece il bisogno di rianimare una discussione pubblica sulla forma di governo in quei territori, sui temi che attraversano la vita reale delle persone che abitano quei territori.
E così per le Europee dovremmo fare i passi più delicati. Dobbiamo intendere, con attenzione e petulanza, che le elezioni europee non sono la presentazione del partito della sinistra, ma sono una tappa per la ricostruzione della sinistra. Dobbiamo insistere, dobbiamo spiegarlo, dobbiamo spiegarci, ma naturalmente la spiegazione non sta in un comunicato. Sta nello stile del nostro lavoro, sta in come lavoreremo. Sta nell’attenzione che daremo a quelle esperienze di unità a sinistra che già stanno lavorando nei territori. Sta nella maniera con cui noi saremo accoglienti, con cui faremo vivere la tensione unitaria non come una specie di raccolta indifferenziata di ciò che c’è, ma come la costruzione appassionata di una nuova sinistra, di una nuova cultura politica, di una nuova idea dello stare al mondo per chi è di sinistra. Lo possiamo fare oggi per una ragione: la domanda di cambiamento. E il cambiamento misuriamolo come facevano i vecchi comunisti, con un po’, non solo di spirito, ma di sguardo internazionalista, ricordandoci che l’Europa è un frammento del mondo. È il frammento più vecchio, è il frammento più spaventato, è un frammento in cui la grande narrazione europeista è finita dentro il pozzo nero di Maastricht, e l’idea di una costituzione continentale è finita dentro la mediocre mediazione di Chirac, l’Europa è dentro questo mondo, e nel mondo oggi ci sono luci ed ombre che devono orientare la nostra azione.
Pensate che cosa ha significato, lo ricordava Alfonso Gianni, l’America Latina per quelli della mia generazione: ogni giorno un pianto, ogni giorno un colpo al cuore, ogni giorno una tragedia. Pensate cos’è stato, uno dopo l’altro, il Brasile, il Cile, L’Argentina, la Bolivia, il Perù, il Paraguay. Ogni giorno. Era il cortile di casa dell’imperialismo americano, era la sperimentazione della tortura di massa, erano i colpi di stato, era la realtà dei gorilla. Pensate che cos’è oggi quest’America Latina, che laboratorio di idee e di pratiche sociali è, il lavoro che c’è nelle periferie brasiliane. Pensate quant’è importante avere quello sguardo, anche per non morire di depressione perché fummo e siamo eurocentrici. Dobbiamo sapere che quella è una parte rilevante del mondo. E su è accaduto un fatto gigantesco con l’elezione di Obama.
Badate, compagni e compagne, le cose bisogna subito imbraghettarle, e mi riferisco ai braghettoni, a quelli che nel ‘600 dipingevano sui corpi nudi dipinti da Michelangelo nella Cappella Sistina, mettevano le braghe. Molti pensano che essere comunisti sia fare come quelli lì, mettere le braghe, con tutti i distinguo preventivi, perché non si dovesse vedere un’impudicizia, o dovesse essere Obama uno spiazzamento rispetto al mio modo d’intendere le braghe della storia. E intanto il primo atto è la chiusura di Guantanamo. Il primo atto!
Siamo al seppellimento della guerra di civiltà: la chiusura di Guantanamo, l’appello al dialogo con l’Islam. È tutto un vocabolario che cambia. Quando Obama nasceva, alcuni incappucciati, vestiti di bianco come i fantasmini, impiccavano le persone che avevano il colore della pelle di Obama, lì, in quella realtà, dove lui è nato e dov’è nata la storia della sua famiglia. E sarà una differenza se Obama evoca memorie che sono dentro di noi, nomi come quelli di Martin Luther King, o anche di Kennedy. Che non significa non avere un filtro critico. In America loro hanno la libertà persino di prendere ad esempio Malcolm X. Se lo facessi io, domani forse avrei un avviso di garanzia.
Quello che accade in America, in qualche maniera è sempre un’anticipazione di processi che riguardano l’intero mappamondo. È partita di lì la rivoluzione “reganiana”, è partito di lì il comando della riorganizzazione liberista del mondo, e di lì sta partendo qualcosa che già ha cambiato l’immaginario. Lo sappiamo o no che abbiamo qui - se posso dire così parlando come se fossi un pubblicitario - i gruppi dirigenti governanti più vecchi del mondo? Vecchi perché il loro lessico è una sopravvivenza di quello che Obama ha seppellito. Perché il berlusconismo è una sopravvivenza di quello che Obama ha seppellito nel mondo. E resisterà se noi saremo gonfi di voglia di suicidio. Vinceranno se noi vorremo perdere!
E allora io vi devo dire la verità compagni, e scusate se contraddico quello che può sembrare un senso comune: io non ho dolore. Ho avuto un grande dolore quando a Rimini si è sciolto il Pci. Pensate: in due mesi mi son venuti quasi tutti capelli bianchi che poi ora porto in testa. Si, è vero! È stato un grande dolore perché quella era davvero una grande casa, talvolta una chiesa, con il fascino anche però del dio evocato, della liturgia. Io ero tra quelli che naturalmente ha vissuto tutta la vita in odore di eresia, dentro al Pci.
Però quando mi hanno tolto la chiesa mi sono molto ribellato e poi depresso. Ho provato dolore in alcuni momenti della vita di Rifondazione comunista, quando sono andati via compagni e compagne. E tra questi il compagno a cui abbiamo mandato stamattina il nostro abbraccio, che ha perduto la sua splendida e meravigliosa Mara, Lucio Magri. Ho sentito in quei momenti proprio un impoverimento della nostra storia collettiva. Ma non sento dolore oggi. Ho vissuto un grande turbamento a Giugno, ma non sento dolore.
Non è un dolore lancinante perché Rifondazione comunista, che pure ho amato follemente per diciotto anni della mia vita, non era una chiesa, e ci ha consentito a tutti quanti di vivere più laicamente.
Io ho litigato sempre con tutti e quando leggo “i vendoliani” sui giornali un po’ mi viene da ridere, perché sono stato in dissenso con Cossutta, con Garavini, con Bertinotti, con Ersilia Salvato, con Lucio Libertini. Con tutti, anche con Ferrero. Cioè ho sempre pensato che era un luogo in cui non c’era una verità superiore, che viveva in una specie di limbo gerarchico perché era una costruzione in cui ciascuno giustamente metteva un pezzo del suo essere, come dicemmo allora, liberamente comunisti.
E poi io non provo dolore perché ne ho provato un altro più grande, che però non è soltanto un dolore privato, è un dolore anche pubblico. Pubblico nel senso che ha un significato pubblico, perché dentro quei passaggi della vita privata che sono i congedi più duri, più difficili. Ho rivisto non solo la storia, quella di mio padre e quella del Pci. Ma ho rivisto di quella storia il significato più bello, che era fare politica perché si vuole bene alla gente, fare politica come empatia nei confronti del mondo. Quindi io penso che abbiamo il dovere di storicizzare anche i nostri turbamenti, i nostri sentimenti, di storicizzarli. Siamo in un passaggio fondamentale, in cui l’utilità sociale del fare politica è un tema troppo più importante del mio turbamento, del tuo turbamento, della tua sofferenza.
Il problema è proprio dentro questa parte del mondo e dentro questo passaggio di fase, di epoca. Dentro le società della crisi economica e poi sociale, dentro il tempo della recessione, dentro le prime vistose crepe dell’egemonia delle destre, dentro tutto questo e a fronte di una paralisi che rende la sinistra un insieme caotico di impotenze, hai o no un dovere primario? Il primo dovere è di fare la sinistra come quella roba lì, che parla di un popolo, che parla a un popolo, che da speranza, che organizza le lotte, che accumula forze, che ha significato, che segna la storia del paese. E questa è la sinistra che vorrei fare. E per quello io non ho paura. Esco di qua più carico perché mi avete aiutato a capire che tutti insieme, praticando il dubbio, praticando l’etica del dubbio e praticando sino in fondo la cultura del rispetto reciproco, possiamo farcela. A condizione che domani non siamo una caricatura di quello che eravamo ieri, a condizione cioè che non ci ficchiamo dentro un’avventura che sia una miniatura di quello che abbiamo già sperimentato, a condizione che sappiamo di non avere formule magiche. Non c’è un “abracadabra”. Come si fa ad aprire il percorso della nuova sinistra? Partito? Rete? Nodi territoriali? Dobbiamo cavarcela rubando la parola a un bel libro di Franco Cassano “approssimazione”.
Approssimazione è una parola che vuol dire questo: avere il senso del limite di quello che si fa, procedere per sperimentazione. Quindi guardare con senso della relatività alle cose che si fanno, senza mai immaginare che siano il terreno di una proclamazione dogmatica. E approssimazione significa avvicinarsi. La costituente di un nuovo soggetto della sinistra non si convoca: è il punto terminale di un processo di approssimazione, in cui noi proprio per approssimazione dobbiamo cercare lo sguardo e le culture degli altri, di tanti, di quelli che si sentono di sinistra ma da troppo tempo sono a casa, di quelli che vogliono far vivere la sinistra ma non trovano luoghi politici in cui agire questa speranza.
La sinistra, cioè un’educazione civile alla conoscenza e all’amore nei confronti delle storie dei nostri popoli. Cioè la capacità di riattraversare i territori guardando criticamente ad ogni forma di localismo, guardando al dolore che nei territori vive, e alle speranze e ai talenti che nei territori si organizzano. La sinistra, cioè un’idea del mondo, un’idea della vita. Qui, in un cartello, c’è addirittura “io amo”, che è un’espressione diciamo abbastanza inusuale. Ma c’era nei Minima moralia un aforisma di Adorno che mi ha sempre molto colpito, che mi ha detto che è questione politica persino la parola amore. Dice così: “amare significa scorgere il simile nel dissimile”; ed è un bel terreno di ricerca, per noi soprattutto, che pensammo all’amore, in alcune parti della nostra tradizione, come ad una cooptazione verso un’uguaglianza che appiattiva ed omologava.
Noi vogliamo costruire l’uguaglianza delle diversità, cioè l’uguaglianza per tutti e per tutte, per ciascuno e per ciascuna, nel senso di essere messi tutti e tutte in grado di far vivere, con ricchezza, senza paura, anche in percorsi di cercata felicità, di far vivere la propria diversità.
Comincia un’avventura difficile, ma se noi la vivremo per il gusto di ritrovarci dentro una speranza collettiva, se noi la vivremo senza sospetti reciproci, se noi la vivremo senza risentimenti, se noi la vivremo per l’amore che abbiamo per la politica, per l’amore che abbiamo per un’idea dell’umanità, io penso che avremmo fatto la cosa giusta.