Il lavoro, l'innovazione, il mercato Precarietà.
Prima ignorata e nascosta nella più elegante categoria della flessibilità, così moderna e così capace di fare tanto post-fordismo. Poi resa sfuggente, astratta seppure incombente. Infine disvelata da vicende sociali puntiformi quanto importanti, da inchieste, ricerche universitarie, lotte specifiche, racconti, libri e documentazioni. E poi il 20 ottobre. Se prima bisognava lavorarci, ora si può lavorarci. Nel senso di costruire soggettività, organizzazione politica e cultura. Per dare una mano a realizzare questo compito, intanto bisogna farla entrare sistematicamente nella composizione di un discorso politico......
Io penso che la potenza del lavoro nella definizione generale dell'assetto della società e della vita delle persone sia stata nell'ultimo quarto di secolo fortemente oscurata da un grande fraintendimento operato dalla nuova fantasmagoria del mercato e dall'ideologia dominante, quello secondo cui si sarebbe costruita una società post-industriale, in cui il lavoro sarebbe diventato socialmente irrilevante.....
Poi c'è un secondo fraintendimento; quello che è derivato dall'avere assegnato a una determinata figura di lavoratore e di lavoratrice, una capacità riassuntiva della condizione più generale del lavoratore nella storia moderna. In altre parole, è sembrato che l'esistenza stessa del lavoro ci fosse solo finché ci sarebbe stato un certo tipo di lavoro nell'industria manifatturiera, nella produzione di serie e nella grande industria. Riducendosi questo tipo di lavoro, anche se solo in alcune aree del mondo, e venendo a essere messa in discussione la centralità di quel modello di lavoro perché legato al ciclo fordista-taylorista ormai esaurito (cioè il modello del lavoro stabile a tempo pieno e a vita, dalla giovinezza sino alla vecchiaia), si è voluto ricavare, al contrario di quello che concretamente stava accadendo, la conclusione della fine del lavoro...
Quel che così veniva proiettato nell'immaginario collettivo fino a oscurare la realtà era, in effetti, il portato di una grande sconfitta sociale e politica del movimento operaio e di una altrettanto grande modernizzazione, quella rivoluzione capitalistica restauratrice che si è chiamata globalizzazione. Sarebbe bastato leggere qualche pagina dei coniugi Webb per essere avvertiti contro la mistificazione, per sapere che proprio il contrario accade, e accade sempre, nella realtà. Sarebbe bastato per sapere, cioè, che a condizionare l'essere sociale era ed è, insieme al lavoro astratto, il lavoro specifico ma non solo quello congiunturalmente o anche storicamente definito quale prevalente, bensì, allo stesso modo, quello non considerato come paradigmatico, dunque il precario, ma anche il senza lavoro, il disoccupato; ogni condizione di lavoro contribuisce a definire l'essere sociale......
La precarietà che ci investe non è il frutto dell'arretratezza ma dell'innovazione. Alla domanda "l'innovazione serve Dio o Mammona?" si può rispondere, come rispondeva il teologo, "serve Mammona", per poi aggiungere" a meno che". Con ciò si vuole sostenere, secondo me giustamente, chel'innovazione, in questo contesto, muove tendenzialmente in direzione della generazione di alienazione, a meno che l'intervento degli uomini tra loro organizzati, delle istituzioni, della politica, delle forze sociali imprima ad essa un altro corso. Ma c'è ancora una seconda domanda che si pone: questa dura e pesante precarietà è un fungo sconosciuto? Prima di noi, di questo nostro tempo, non c'è mai stata? La storia del capitalismo e dello sviluppo delle forze produttive incontra per la prima volta una siffatta precarietà, sorta per incanto di fronte al lussureggiare delle nuove tecnologie, dell'informatica,delle comunicazioni, oppure essa è una propensione che sta dentro la formazione economico-sociale capitalistica e solo - come è già accaduto nella storia - il conflitto di classe, l'intervento attivo della politica e delle organizzazioni sociali l'ha potuta comprimere fin quasi a sradicarla? Secondo me, è vera la seconda ipotesi. Alla fine dell'Ottocento e agli inizi del Novecento, il lavoro era precario, molto precario. Basta riferirsi al materiale assai vasto di ricerca che esiste a questo proposito, per poter dire che non siamo noi per primi a scoprire, qui e in questa parte del mondo, un fenomeno drammatico. Il Marx del capitolo del Capitale sul processo di accumulazione, con una formula che tutti ricordiamo, sia perché è assai nota, sia perché ha fatto parte del nostro bagaglio di citazioni in molte e diverse stagioni politiche, afferma che nell'organizzazione della produzione manifatturiera si produce la "fanteria leggera" del proletariato. Cos'era quella fanteria leggera generata dal capitale? Essa è costituita dai lavoratori vaganti, da coloro che non avevano alcuna stanzialità e che rincorrevano il lavoro laddove nascevano e si stabilizzavano le fabbricheper inseguirlo altrove quando ne venivano cacciati......
Una delle ragioni che spiega la diffusione così rapida e ampia della flessibilità e della precarietà (insieme alla forza del capitale che si ristruttura parallelamente alla sconfitta del movimento operaio) è il loro carattere ambiguo e, in apparenza, doppio. La flessibilità è, per sua natura, un fenomeno ambiguo. Contiene una doppiezza, specie se riferita al lavoro. Perché è il combinato disposto delle attese diverse di due soggetti con interessi antagonisti: uno, la lavoratrice, il lavoratore, e l'altro l'impresa. E' evidente che c'è, in astratto, una flessibilità che potrebbe interessare il lavoratore. Uso a proposito il condizionale e lo sottolineo. Potrebbe interessare il lavoratore? Sì, se la flessibilità determinasse una risposta ad un'attesa, che c'è e che andrebbe valorizzata, di una possibilità di scelta. Sono padre o madre, ho un figlio da accompagnare a scuola, se il mio orario di lavoro potesse essere flessibilizzato in ingresso e in uscita, questo mi starebbe bene perché mi consentirebbe di soddisfare un bisogno di organizzazione della vita. Se io ho una propensione allo studio, se mi matura l'esigenza di una determinata formazione e potessi prendermi un anno sabbatico, sarebbe bene. Sono esempi di flessibilità che risponderebbero, e se ne possono indicare molte altre, ad una domanda della lavoratrice o del lavoratore. Ma c'è un'altra flessibilità che invece sorge da una domanda dell'impresa di flessibilizzare la prestazione lavorativa per renderla funzionale agli andamenti mutevoli del rapporto tra l'impresa e il mercato. Il mercato condetermina la variabilità e i mutamenti della domanda sull'impresa e l'impresa la trasforma in una domanda di flessibilità sui lavoratori. Quando queste due istanze di flessibilità entrano in contrasto tra loro non è difficile sapere chi tra queste due vince. Sono entrate, in effetti, in contrasto e ha vinto l'impresa che ha schiantato la domanda di flessibilità come qualità della vita e ha imposto invece la flessibilità come funzionalizzazione della vita della lavoratrice e del lavoratore all'andamento del rapporto tra il mercato e l'impresa. Ecco perché la flessibilità, poi, slitta verso la precarietà. E' quella stessa esigenza di unilaterale governo del processo di lavoro che origina la richiesta di flessibilità che diventa moltiplicazione dei rapporti di lavoro a tempo determinato. Il mercato del lavoro diventa così un supermarket, in cui l'azienda entra, esce, compra, prende la forza-lavoro col rapporto di lavoro che più è funzionale all'azienda stessa. E qual è quello che gli è più funzionale? Quello che riduce il costo del lavoro e che aumenta la dipendenza della forza-lavoro alle esigenze dell'impresa......
E' proprio l'analisi del lavoro salariato e della precarietà di questo capitalismo totalizzante che ci conduce alla ricerca di un orizzonte, di una cornice, entro il quale, le necessariamente assai articolate risposte di lotta alle diverse espressioni concrete della precarietà, possano affermarsi, e con loro la possibilità di costruire un lavoro sociale e politico che le possa connettere tra di loro e con le altre lotte sul lavoro, riaprendo il grande capitolo dell'unità della coalizione lavorativa e della sua soggettività. La tesi è infine la seguente: neppure questo compito che io credo sia assolutamente necessario svolgere per attivare un conflitto e un intervento diretto può avere un successo definitivo di risanamento e di bonifica dalla precarietà senza una modificazione del modello socio-economico. Se si pensa, come abbiamo provato a mostrare, che la precarietà sia frutto organico di questo modello, bisogna sapere che il risanamento dalla precarietà (per cui bisogna combattere quotidianamente per conquistare leggi, accordi, obiettivianche parziali) può essere perseguito, e la precarietà può essere sradicata, solo mettendo al centro dell'azione politica la modifica del modello economico e sociale, il mutamento dell'organizzazione della produzione, della riproduzione sociale e dei consumi. Se la competizione delle merci continua ad avvenire sul terreno in cui oggi si manifesta, la pressione che essa esercita sul lavoro e sui soggetti sociali è troppo forte perché possa risultare vincitrice la tendenza critica, se resta racchiusa all'interno del conflitto nel mercato del lavoro. Se non si produce attraverso un diverso livello del conflitto uno spiazzamento che cambi i termini stessi della produttività e della competitività, l'efficacia dell'azione sociale, pure assolutamente necessaria, non può divenire strutturale......
Se non riapriamo almeno qualche finestra in questa direzione, se non si conquista qualche elemento di un mutamento del modello di produzione, di riproduzione e di consumo, rischiamo di essere strangolati da questo meccanismo onnivoro e totalizzante, in ogni contesa che si apre nella società, a partire dalle grandi questioni del lavoro. Il tema della trasformazione della società capitalista non è un lusso, né una questione ideologica, è un tema propriamente politico.
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