martedì 18 marzo 2008

Tibet, l'ultimatum di Pechino ai monaci

«Arrendetevi entro lunedì e saremo clementi». Così la Cina affronta la rivolta sul tetto del mondo. Che, secondo il governo tibetano in esilio, avrebbe fatto fino a ora almeno trenta morti.

Fausto Della Porta

Resa entro la mezzanotte di lunedì in cambio della «clemenza». È questo l'ultimatum posto dalle autorità cinesi in Tibet a quanti hanno preso parte alle manifestazioni anti-cinesi di venerdì a Lhasa, guidate dai monaci buddhisti e stroncate nel sangue della polizia. L'agenzia ufficiale della Repubblica popolare Xinhua ha riferito che l'ultimatum è stato posto dalle autorità preposte all'ordine pubblico in Tibet, con una nota in cui si accusa i rivoltosi di avere dato alle fiamme scuole, ospedali, negozi, case e di avere ucciso almeno 10 persone. «L'avviso chiede che chi ha infranto la legge si consegni entro la mezzanotte di lunedì. Sarà garantito un giudizio mite e clemente», ha riferito l'agenzia.Ma su quanto è accaduto venerdì a Lhasa e su quanto è accaduto anche ieri le versioni sono profondamente discordanti: il governo di Pechino ha mostrato immagini di cinesi spauriti in fuga, presi d'assalto da folle inferocite di tibetani. Il governo tibetano in esilio - che a sede a Dharamsala, la cittadina indiana dove vive il Dalai Lama, il leader tibetano - parla di almeno 30 morti della repressione cinese; Pechino sostiene che le vittime sono dieci, e per lo più «uomini d'affari e pacifici cittadini». I residenti di Lhasa descrivono una città in stato d'assedio: mezzi cingolati presidiano le strade, le poche persone che si avventurano per le strade vengono bloccate dai soldati, in alcune zone si sentono ancora colpi di arma da fuoco. John Miles, il corrispondente dell'Economist che si trova a Lhasa - era partito prima dell' inizio delle proteste, che si susseguono da lunedì scorso, perchè da allora non vengono concesse autorizzazioni - ha scritto che ieri alcuni quartieri erano completamente nelle mani dei rivoltosi e, per quello che se ne sa, la situazione potrebbe non essere molto diversa. In un lungo dispaccio diffuso in serata, l'agenzia Nuova Cina racconta commoventi storie nelle quali i tibetani «buoni» salvano i cinesi dalla furia dei cattivi «agenti del Dalai Lama». È lui, secondo le autorità cinesi, il responsabile di tutto, forse con l'aiuto dei servizi segreti americani, circostanza che verrebbe dimostrata - nessuno lo dice ma tutti lo fanno intendere - dal fatto che il primo mezzo d' informazione a dare la notizia delle manifestazioni di protesta, lunedì scorso, è stata Radio Free Asia, l'emittente pubblica americana. Difficile che la comunità internazionale accetti la versione cinese dei fatti, fornita ieri da Qiangba Puncog, un funzionario comunista di medio livello e presidente della Regione Autonoma del Tibet. Difficile anche che regga per i 146 giorni che ci separano dall'inizio delle Olimpiadi di Pechino, che appaiono sempre meno come un sogno e sempre più come un incubo. Mentre un imbarazzato Puncog forniva la sua spiegazione dei fatti, i tremila delegati dell'Assemblea Nazionale del Popolo conferivano un secondo mandato di cinque anni al presidente Hu Jintato, 65 anni. Hu Jintao è stato anche rieletto presidente della potente Commissione Militare Centrale. Come suo vice è stato scelto Xi Jinping, 54 anni, che viene così confermato nel ruolo di successore designato di Hu. Li aspetta un compito difficile, quello di rassicurare la comunità internazionale prima che le contestazioni superino il livello di guardia dando fiato ai sostenitori del boicottaggio dei Giochi. La prossima settimana si terrà a Pechino la prima udienza del processo contro Hu Jia, l'attivista democratico arrestato in dicembre, secondo i gruppi umanitari internazionali, proprio per impedirgli di criticare le Olimpiadi. Sabato prossimo vanno alle urne gli elettori di Taiwan, l'isola di fatto indipendente che la Cina rivendica, che saranno chiamati anche a pronunciarsi in un referendum dalla formulazione cervellotica ma che Pechino considera un passo verso la «secessione». In India gli esuli tibetani hanno ripreso le proteste e la «marcia di ritorno» in Tibet bloccata martedì scorso dalla polizia. Dal Gansu, una provincia del nordovest a maggioranza tibetana, giungono notizie di proteste nel monastero di Labrang, a Xiahe, e in altre due località alle quali avrebbero partecipato centinaia di monaci.
il manifesto, 16 marzo 2008

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