Lettera di Michele De Palma a Piero Sansonetti.
Caro Piero,
penso che tu abbia ragione a dire che dobbiamo andare "oltre". Del resto Liberazione è uno spazio pubblico delle persone di sinistra, fondamentale per andare "oltre" se stesso e le proprie convinzioni per provare a essere, sentirsi utili. Ma per il nostro tempo è scelta molto impopolare e controcorrente sfidare le certezze che cementano la comunità perché vengono avvertite come un pericolo che insinua il dubbio e il dubbio è nemico del "serrate le fila compagni!".
Scriverti questa lettera, so già che mi costerà "sassate" e polemiche, ma in questo momento qualsiasi conformismo, mediazione, compromesso è un attentato non solo al futuro della sinistra, ma all'idea che le cose possano cambiare. Eppure, vedi Piero, le chiacchiere in direzione, comitato politico, sono mute dinnanzi alle manifestazioni di ieri e a quelle in programma nei prossimi giorni. È impressionante la radicalità matura, molecolare, moltitudinaria che sta ri-animando il senso stesso della politica, senza che i "politici" se ne accorgano. L'opposizione con la "O" grande e roboante della sinistra è sentita come la "H", la mutina, la chiamavano i miei maestri a scuola. E leggendo e rileggendo gli articoli che alcuni dirigenti del mio Partito, scrivono sul nostro giornale mi viene da impazzire.
Caro Piero, tu non sei in direzione nazionale, ma nel corso dell'ultima, mentre noi, noi tutti discutevamo delle nostre beghe, in tutta Italia scendevano in piazza centinaia di migliaia di studenti medi e noi, come se nulla fosse: neanche una parola, se non fosse per un intervento in chiusura di una giovane comunista. L'opposizione alla sfida per l'egemonia della destra nella società (do you remember Gramsci?) è sbocciato nelle assemblee con migliaia di studenti e docenti, come ieri nell'università di Palermo e non nel balbettio da cretinismo parlamentare del Pd o nell'ostentazione identitaria delle sinistre. Non siamo dinnanzi solo ad una opposizione alla riforma, ma a un tentativo di ri-presa di coscienza più generale della crisi che investe la scuola, università e quindi la nostra stessa civiltà.
"Noi la crisi non la paghiamo" è l'urlo e il virus di contaminazione che allude da subito solidarietà con una crisi generale. E invece dalle nostre parti si sente dire che: "tra la borsa di Milano e la busta della spesa noi scegliamo di occuparci dell'ultima". Ma come? Bisogna essere a "Crozza Italia" per non capire la relazione. La potenza che gli studenti e i ricercatori precari hanno cominciato a muovere, supera i confini detentivi e disciplinari delle mura universitarie e scolastiche, cerca contaminazioni come un virus che si insinua nei centri di ricerca e sviluppa "senso" e "simbolico". Riattraversano la metropoli nel suo complesso e intercettano lo sfruttamento delle filiere produttive cognitive e materiali, (dalla ricerca commissionata dai privati alla consegna in motorino della pizza la sera). Le parole della sinistra sono più povere di quelle degli studenti. Noi non possiamo scegliere la strada del populismo, perché questo significherebbe rompere con una nuova generazione e farsi fregare dalla destra nelle periferie. Il conflitto che si è aperto in questi giorni è anche la possibilità di una alfabetizzazione, di una rottura della semplificazione del lessico mediatico e politico imposto dalla egemonia della destra, è una occasione per la sinistra non di cercare consensi, ma le parole, provando ad ascoltare e mettendo a disposizione quello che ha per far vivere uno spazio pubblico di opposizione innanzitutto alla cultura delle destre. I saperi e la loro trasmissione sono i codici e i geni della matrice. Del resto, cosa sono se non l'assalto delle destre al pubblico, al '68, alla scuola e all'università e infine al contratto nazionale di lavoro? Non è solo la vendetta ma un investimento sul futuro. Intervenire sul Dna di una società da modificare geneticamente attraverso azioni semplificative, disciplinari (il grembiule), segregative (classi separate per i migranti). E qui nasce una domanda cruciale: la sinistra è all'altezza della sfida?
Avendo letto alcuni articoli pubblicati in questi giorni dopo la manifestazione dell'11 penso di no, viste le lenti deformanti dell'obbligata felicità da "orgoglio rosso" post corteo. Sì, è vero, eravamo in tanti, più del previsto, ma confesso che nonostante i numeri la manifestazione mi ha fatto sentire più solo del giorno prima. Pensavo fosse solo una mia sensazione, percezione, ma col passare delle ore mentre sfilavamo per le strade di Roma e nei giorni seguenti nelle discussioni con chi c'era e chi no, è diventata una "connessione sentimentale", una "verità" inconfessabile per opportunità politica. Premetto che la mia riflessione prescinde dalle torsioni e tensioni identitarie. Ho visto migliaia di bandiere, forse lo stesso numero del 20 ottobre, ma mi si permetta di dire con onestà, con un numero inferiore di partecipanti. Sembra di passare dalle "belle bandiere" alla "guerra delle bandiere" che contagia tutti. Contagia e non contamina. Sì, perché eravamo abituati alla parola contaminazione: con-fusione di storie personali e organizzazioni, eravamo abituati agli attraversamenti, mescolamenti, di diversi colori. Il 20 ottobre, qualcuno può obiettare era ugualmente tinto solo di rosso, ma la differenza con l'11 è che un corteo monocromatico era stranamente segmentato. Bastoncini di frammenti di identità di partito. Ogni spezzone aveva la sua verità comunista da esibire contro. Una specie di sfida cromatica a chi è più rosso, col rischio del sotto la bandiera niente. Mi spiego meglio. Quelle bandiere sono stracci rossi che possono essere raccolti per terra da un bambino immigrato che rischia la segregazione razziale in una classe ad hoc? Sono stracci rossi che operai precari possono raccogliere per battersi per il contratto? So di fare una critica pesante, che ovviamente è rivolta innanzitutto a me stesso, ma penso che la manifestazione dell'11 non fosse conflittuale. Questo non significa che non ci fosse rabbia, passione e la voglia di dire dopo tante sconfitte: ci sono, esisto! Ma nel tempo in cui siamo tra crisi sociale e economica, di passioni tristi e cultura xenofoba, omofobica e sessista non possiamo accontentarci. Le destre al governo continuano ad alimentare la guerra civile, la frammentazione per segmenti omogenei: il nostro problema oggi è rompere i recinti. Spiazzare l'avversario. Rompere le solitudini, come quella di Roberto Saviano, emblema di una generazione del sud che magari ci prova e viene lasciata sola. Ho abbracciato tante compagne e compagni in quella manifestazione e sono contento del fatto che sui numeri abbiamo vinto, ma posso dire senza essere accusato di disfattismo che il nostro problema è andare oltre? "Oltre" parola eretica in questo periodo nei nostri paraggi, per me una ossessione per rompere la solitudine dei comunisti e della sinistra. Rischiamo l'autismo. Rischiamo di parlare tra di noi anche in un corteo. Rischiamo di continuare a non essere sentiti utili. Insomma non si è prima comunisti e poi donne, giovani, precari, immigrati. È esattamente il contrario. Per questo penso che il nostro problema sia come le opposizioni (dagli studenti agli insegnati, passando per i migranti fino ai precari), possano trovare uno spazio pubblico condiviso. Porre un problema generale, mi verrebbe da dire di civiltà e di umanità visto quello che sta accadendo nel mondo. Essere capaci di alzare lo sguardo oltre le nostre bandiere. Sono questi i motivi per cui, caro Piero, ti ho scritto questa lettera. Perché non voglio partecipare alla liturgia della nostra beatificazione, visto che siamo ancora vivi. Forse un aneddoto può spiegare più di mille parole. Il giorno prima del corteo ho provato a convincere un operaio in pensione del bergamasco a non partire da Roma e a prendere parte alla manifestazione. La sua risposta caustica è stata "non ho bisogno di andare a una manifestazione per dire che esisto, io lo so già".
Liberazione - 18/10/2008
lunedì 20 ottobre 2008
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