martedì 21 aprile 2009

ITALIA SI, ITALIA NO, ITALIA BOH.


di Marco Senaldi* - Flash Art n.274 Febbraio - MArzo 09

REALITY SHOW

L’ITALIA È UN paese magnifico, o un posto da incubo? In Italia si pagano troppe tasse, o se ne evadono ancor di più? L’industria italiana svetta per eccellenza, o inquina a più non posso? Le università italiane sfornano cervelli da esportazione, o sono incestuosi covi del malaffare? E gli artisti italiani, infine, sono geni incompresi o provinciali mammoni? Girala come vuoi, da queste domande opposte non se ne esce. O meglio, quello che esce è la solita immagine dell’Italia, un paese impossibile, una nazione paradossale, un coacervo di contraddizioni che si rimpallano, che si ripetono, che sfuggono anche a hi vorrebbe risolverle, e che alla fine stremano tutti col risultato che si va in qualche modo avanti. Eppure, dài che ti do, alla fin fine di tutto questo gran parlare, scatenarsi, incatenarsi, stracciarsi le vesti, e ricucirle per poi rimettersele, magari a rovescio, il dì seguente qualcosa, nella percezione comune e forse nelle cose stesse, è cambiato.
Un primo cambiamento riguarda senz’altro il livello del dibattito. Quasi Impercettibilmente, dato il fragore generale, siamo transitati dalle sottigliezze politiche, o dalle invettive ideologiche esasperate, a un piano diverso, direi di irresistibile trasparenza. Un giornalista d’assalto come Marco Travaglio può dare del mafioso a uno (di fatto condannato) come il senatore Dell’Utri, e questo resta in parlamento; salvo poi demandare al portavoce del suo partito, Daniele Capezzone, il compito di apostrofare in diretta Tv proprio il Travaglio con l’epiteto di “coglione”.

A un livello (gerarchicamente) più elevato lo stesso Berlusconi può spingersi a ricordare come un “eroe” Vittorio Mangano, il suo stalliere mafioso, e il suo avversario Antonio Di Pietro può rimbeccarlo, senza che questo però generi alcuna conseguenza effettiva. In altro ambito, la polemica tra Francesco Bonami e Achille Bonito Oliva sulla mostra “Italics” ricalca questo modello: ci si rinfaccia apertamente quello che una volta si sarebbe sussurrato con prudenza agli orecchi di un confidente. Benché tanta apertura linguistica e mentale non generi nessun mutamento reale, di fatto però rende le cose interessanti da un altro punto di vista, cioè da quello che potremmo definire “espressivo”. L’Italia è un caso unico in cui in definitiva tutti sanno tacitamente che la capacità di fornire una riflessione obiettiva non è demandata né ai politici (consapevoli del fatto che, come diceva Mussolini, “governare gli italiani non è difficile, è impossibile”), né ai giornalisti o ai media (che sono già capillarmente collocati per fasce di artito), né ai vertici religiosi (storicamente screditati da una prossimità geopolitica esagerata), e nemmeno alla cosiddetta società civile e ai suoi rappresentanti, anch’essi di frequente collusi coi potentati di vario rango. Che cosa resta allora, se non la traduzione in termini artistici di questo impasto dei mali dell’(ex) Bel Paese, e la loro relativa nobilitazione creativa? La conseguenza, essa stessa paradossale, è che, oggi, se un sociologo volesse conoscere come funziona l’Italia, farebbe meglio a vedere un reality show che analizzare i (peraltro discutibili) indici Istat. Se uno storico volesse ricostruire le vicende del paese farebbe meglio a guardarsi un film recente di qualità, anziché compulsare fonti spesso contraddittorie. E se un italiano volesse capire in che paese abita forse sarebbe bene che cominciasse a guardarsi intorno e osservasse che opere producono i suoi artisti.

Dopo molti decenni, infatti, di “complesso di inferiorità culturale”, di “non facciamoci

riconoscere”, e di “perché non siamo un paese normale” (come non pensare a certi film come Fumo di Londra, in cui l’Albertone nazionale sviscerava tutta la xenofilia che ci contraddistingue?), oggi molti artisti, scrittori, registi e designer tornano a concentrarsi su temi tipicamente locali, con la consapevolezza che non sono eventi marginali di una provincia dell’impero, ma fatti a loro modo epocali degni di diventare soggetti artistici. Non è un caso che il nuovo cinema italiano dei vari Garrone, Virzì, Sorrentino, Vicari, si sia concentrato su temi di politica e di società assolutamente italiani — come la camorra o la longevità politica di Andreotti, spesso in stretta correlazione con la narrativa emergente di autori come Saviano, Ammanniti, Veronesi, Brizzi. D’altra parte non è un caso che i nuovi designer italiani, come Giulio Iacchetti, abbiano addirittura realizzato un libro-archivio di tutti gli oggetti, reali o virtuali che definiscono l’identità italiana, dal calendario di Frate Indovino alla Coccoina, dalla Festa dell’Unità alla liquirizia Tabù (raccolti nel volume collettivo Italianità, Corraini, Modena), mentre Roberto Giolito ha ridato vita, con sensibilità e intelligenza, a un mito del tutto italiano come la Fiat 500 (Il marketing del fantasma. Nuova Fiat 500, di Fulvio Carmagnola, in OT/ Orbis Tertius, 1, Mimesis, 2008). Anche la fotografia italiana si segnala per questo recupero: basti pensare all’opera di Francesco Jodice o di Paola di Bello, di Massimo Siragusa o di Paola Salerno per capirlo. Tuttavia, qui è fondamentale stabilire alcune distinzioni. Una serie di artisti e di opere si è focalizzata sui guasti italiani con grande serietà, ma fatalmente ricalcando atteggiamenti tradizionali. Lo stesso esempio di Gomorra — il libro più del film — indica che quando si affrontano temi “alti” si tende a ricorrere a linguaggi altrettanto alti, di severa “riscossa civile” come, in questo caso, il recupero del Neorealismo, stile che però rischia di non essere più in sintonia coi tempi. Nelle molte operazioni attuali in cui ritorna il vecchio cliché della denuncia, si conserva una (immotivata) fiducia nel fatto che ci sia qualcosa da (d)enunciare a qualcuno, e che sia possibile farlo da un luogo di (d)enunciazione neutrale, non coinvolto, “obiettivo” sui fatti, la cui inesistenza invece è proprio ciò che rende tanto paradossale la situazione (e la storia tutta) del nostro paese.
Alcune recenti operazioni artistiche che hanno toccato il senso dell’appartenenza italiana, invece, partono proprio dall’impossibilità di una presa di posizione “obiettiva”. Operazioni come l’Art Parade di Francesco Spampinato con le bandiere italiane spixellate, o l’opera di Goldiechiari Confine immaginato, l’installazione sonora che riproduceva con campionamenti di scrosci d’acqua e sciacquone l’inno italiano Fratelli d’Italia, o la faccia di Berlusconi trasformata in icona bizantina nei mosaici di Leonardo Pivi testimoniano, più che una volontà di mettere alla berlina usi e costumi italioti, il radicale confronto con un’identità fantasmatica, scollata da se stessa come i bordi di una foto mossa, dove il culto del calcio, la foto del leader e l’inno di Mameli (tutte cose per altro stranamente collegate!) si scambiano ruoli e significati. In questo

senso, l’opera di Cattelan, che sovente ha toccato il tema dell’identità italiana, resta

profondamente indicativa. Da Ninna Nanna del lontano 1994, installazione realizzata con le macerie del PAC dopo l’attentato che lo aveva distrutto, fino a All, 2008, i nove marmi che sembrano altrettanti morti ammazzati, Cattelan non si è mai arreso alla logica della semplice denuncia, preferendo la strada indiretta dell’interrogativo e dell’ambiguità riflessiva. Non è un caso che al suo collodiano Charlie don’t surf (il ragazzetto con le mani trafitte da due matite) sia dedicata l’omonima ballata dei Baustelle — e non è nemmeno un caso che un’allegoria ricorrente nell’arte contemporanea, proprio a cominciare da Cattelan, fino ad arrivare alla parodia di quel duo geniale e irresistibile che sono Bertozzi & Casoni, passando per Manganelli e Carmelo Bene, sia proprio il dis-eroico Pinocchio. In questo senso, più che alla ricerca delle radici di una presunta identità italiana, gli artisti nostrani migliori hanno afferrato che la verità di questa nostra terra risiede soprattutto in una differenza intrinseca, disidentità di sé da sé, inaugurata sicuramente da uno come Pirandello. È in questa chiave che andrebbero recuperate le tradizioni anti-tradizionali della dis-italianità. Sinceramente, è bello che un curatore di livello internazionale come Bonami abbia incluso nella sua mostra “Italics” figure desuete quali Guttuso o Ferroni, ma in un certo senso, ciò che è davvero singolare non è il gesto di includerli in mostra, ma lo stupore che esso ha suscitato. Anche questo è un tratto tipico dell’italiotismo più becero: in Francia, per esempio, quando una personalità raggiunge un rango storico, può essere sottoposta a una critica postuma anche feroce, ma entra automaticamente a far parte di un pantheon da cui non è più rimossa, e in cui trovano posto tanto Luigi XVI che Napoleone, tanto Céline che Sartre. Qui, invece, l’ultimo arrivato pretende di fare piazza pulita di tutti quelli che lo hanno preceduto; così, benché non si possa non sottoscrivere la feroce critica che uno come Luca Beatrice ha indirizzato ai cascami ideologici dell’Arte Povera, bisognerebbe anche avere la magnanimità di ammettere che, ormai, è roba archiviata, fa parte della nostra storia

come il Futurismo o la poesia visiva. Così, in una mostra sull’italianità quello che più stupisce non è la presenza di Guttuso (mossa senz’altro talentuosa), ma invece la mancanza degli autentici eroi anti-italiani: se siamo d’accordo su Cattelan, perché non inserire le indimenticabili due puntate di Carmelo Bene da Costanzo del 1994? In quell’operazione mediatica, in cui un personaggio così poco televisivo come Bene ebbe il coraggio e la follia di darsi in pasto a un pubblico immensamente più grande di lui, alligna tutta la forza malapartiana dell’italianità più paradossale e più vera. E non dovremmo dire lo stesso degli interventi televisivi di De Dominicis, o del dimenticato ma pazzescamente geniale Orlando Furioso di Luca Ronconi (1975), che, a rivederlo con gli occhi di oggi, non può non ricordare le elaborate meccaniche visive di una Tacita Dean o di un Matthew Barney? E quando un artista di vaglia come Alfredo Jaar, nella sua ultima personale italiana, si spinge a chiedere con grandi manifesti “dove sta Gramsci”, l’operazione risulta inevitabilmente ideologica perché Gramsci è elevato a bandiera della benedetta “coscienza nazionale”, che l’Italia proprio non ha e la cui mancanza è anzi la sua caratteristica, e le sue “ceneri” andrebbero invece accostate senza timore a quelle dei pochi che hanno condiviso con lui il destino di plasmare questo paese nel bene e nel male, sia pur da sponde politicamente diverse, come Croce, o persino Gentile, della cui storica riforma scolastica siamo tutti (finora!) inevitabilmente figli e debitori. Queste sono le cose che gli artisti di oggi mostrano a tratti di intendere sennonché, forse, un po’ troppo tardi. Ormai, ora che ci stavamo riappassionando al nostro paese, altre realtà vanno affacciandosi sul palcoscenico

della Storia, e forse è l’Europa tutta a essere destinata a un inevitabile declino. Adesso, che avevamo capito di contare qualcosa, non per le nostre presunte e sempre ripetute virtù, ma proprio per i nostri difetti, adesso è il momento di prender congedo. D’altra parte, questo strano destino è in linea con una indimenticabile intuizione di uno dei migliori dis-italiani che mai abbiano calcato il suolo natìo, cioè Pier Paolo Pasolini, che poco prima di morire ebbe a dire: “È dunque assolutamente necessario morire, perché, finché siamo vivi, manchiamo di senso”.



*Marco Senaldi, critico d’arte e filosofo, collabora con la cattedra di Educazione Estetica dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca.

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